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“Ma si può star male così per una squadra di pallone?” La risposta è si. Purtroppo.

24 venerdì Feb 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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La frustrazione e l’avvilimento che ti prendono in serate come ieri, se sei un tifoso, sono qualcosa di tremendo.
Io, di solito, reagisco malissimo.
Se sono davanti alla tv, spengo. Se sono in tribuna, abbandono.
Getto la spugna e me ne vado. Al diavolo tutti gli “you’ll never walk alone” di questo mondo… Se lo spettacolo diventa avvilente, non ce la faccio. Ci sto male.
E’ più forte di me.

Riconosco i miei limiti, e mi specchio nella famosa definizione che il grande Nick Hornby fa del tifoso di calcio, la cui condizione è sempre quella dell’amara delusione, e quasi mai l’appagamento totale.
Soprattutto quando tieni squadre che non sono il Real Madrid, o il Bayern, o la stessa Juventus; che perdono anche loro, intendiamoci… E quando lo fanno, ci rimangono doppiamente male (perché non ci sono troppo abituati): ma nella sconfitta c’è, incorporata, la certezza di un banale incidente di percorso; un’occasionale, fastidiosa nuvola nera che genera un acquazzone imprevisto. Poi, tornerà il sole.

Quando succede alla Fiorentina, invece, una botta come ieri sera
ti colpisce forte e ti mortifica nel profondo. Tira in ballo concetti biblici del tipo “polvere siamo, e polvere ritorneremo”, fino alla sintesi finale: “ma si può star male così per una squadra di pallone?”
La risposta è si. Purtroppo.
Anche se c’è di peggio nella vita.
E poi cosa è la Fiorentina per Firenze, non è nemmeno molto facile da spiegare, perché è una simbiosi addirittura superiore a quella di Napoli per il Napoli e di Roma per la Roma.
Con una differenza, però. Che Firenze è una città piccola.
Bella, ma piccola.
E la Fiorentina (che da noi aveva gli stessi tifosi della Juve, o quasi) da entità nazionale è diventata regionale e adesso quasi esclusivamente cittadina… E con quei numeri non si sogna più.
Ammesso non arrivi lo sceicco, o i Cinesi.

A questo, i Fiorentini non si rassegnano. E se una volta esisteva un margine di prospettiva accettabile, capiscono che è sparito pure quello; perché la trasformazione del calcio ha falcidiato proprio il “ceto medio”. Non i club piccoli (che un certo destino lo mettono pure in conto), bensì la Fiorentina, il Torino, la Lazio fino ad arrivare a Napoli e Roma, che infatti vendono sempre più spesso e comprano poco, se non quelli che gli altri hanno scartato.
E se Bernardeschi (o Chiesa) infilano tre partite decenti di fila, trovano subito chi gli propone un quadriennale da sei netti a stagione, mentre tu puoi offrire la metà della metà… E il tuo bel giocattolino te lo smontano alla prima sessione di mercato, senza nemmeno la possibilità di uno scintillio di grandezza; come hai vissuto ai tempi di Hamrin, o di Antognoni fino a Batistuta.
Dice: “ma se non si vince mai, i tifosi saranno sempre di meno. E saremo destinati ad una decrescita più o meno (in)felice dove sarà benedetto anche un settimo-ottavo posto”.

E così, si finisce a contestare i Della Valle, colpevoli di non metterci niente.
Che è abbastanza logico… Soprattutto in quei frangenti, dove avresti voglia di farli uscire dalla porta di servizio, alle tre di notte (come avrei fatto anche io, se fossi tifoso della Viola).
Però sono tifoso di un’altra squadra… Che quando si è stufato Garrone, non ha visto arrivare né gli sceicchi né i Cinesi.

Si è beccata Ferrero, pensa te.
Che nessuno ha ancora capito chi sia… Ma di sicuro non è quello che ci farà rivincere lo scudetto.

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A me, il gesto di Nicolini ha emozionato molto. Perché il calciatore non deve essere solo bravo Deve essere, come dicono a Roma, “uno che ce tiene”

21 martedì Feb 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Il Netzer di Quezzi.
Come calciatore, me lo ricordo abbastanza bene.

Laddove Quezzi è un quartiere di Genova. E Netzer è Netzer, ovvero uno dei calciatori tedeschi più bravi degli anni 70.
Anni immaginifici. Di grandi sogni, e di soprannomi un po’ larghi: come Tosetto, che era “il Keegan della Brianza”. Montefusco, “il Rivelino di Napoli” per finire ad Improta, nientemeno che “Il Pelè bianco”.

La vicenda è nota, e ha fatto il giro dei social network, notoriamente molto golosi di storie del genere: Enrico Nicolini è nello staff di Mandorlini, e come suo vice allenatore lo segue da anni. E’ stato il suo secondo in Romania ed insieme hanno vissuto anni importanti a Verona, sponda Hellas.
Poi, quando si è trattato di accasarsi al Genoa, il “Nick” ha fatto un passo indietro. E ha detto “no grazie”.
Inopinatamente.
E lo ha detto in omaggio ad una regola semplice, ma concreta.
Enrico Nicolini è Sampdoriano.
Lo è sempre stato. E’ lì che batte da sempre il suo cuore di tifoso, che pesa quanto quello del professionista. Ed il suo “no, grazie” è un no “di pancia”… Perché è pur vero che lavorare bisogna, ma esiste anche un principio: e Sandokan non si arruola nelle Guardie Inglesi. Così come James Bond non si mette al servizio della Spectre.

Sono cose che colpiscono. E chiamano in causa parole alle quali il football ci ha un po’ disabituato: “Senso di appartenenza”, tanto per cominciare. Che è un concetto ancestrale che si richiama alla “tribù” e scomoda addirittura l’antropologia… Ma che, se ci pensiamo bene, è l’unica vera molla del tifoso che si sobbarca venti ore sull’autobus Bisceglie-Torino per vedere la Juve folleggiare contro il Chievo. E Sturaro che alza appena la manina per salutarti, a cento metri di distanza, protetto da un cordone di dieci guardie del corpo.
E’ il “senso di appartenenza” il vero motore di una passione come questa: il “gruppo”, la “tribù”… La stessa che ci infiammava, da piccoli, quando il terzino avversario picchiava Fulvio, e allora sui calci d’angolo partiva Giampiero Mariottini, e rendeva la pariglia, spesso con ingenti interessi.

Perché il calciatore non deve essere solo bravo (anche perché di bravi ce ne sono pochi). Deve essere, come dicono a Roma, “uno che ce tiene”: e quando scende in campo, sà di dovere qualcosa alla maglia che indossa e alla gente che va ad incitarlo. E quella gente ha le sue dinamiche, proprio come una tribù; ha i suoi riti, i suoi segni di riconoscimento e talvolta anche un’avversaria da combattere, che ne vivifica e ne accresce quel senso di appartenenza, come accade al Palio di Siena, per esempio.
Dice: “Eh, ma mica sono queste le cose che contano…”.
E’ vero. Il calcio, alla fine, è soltanto un bellissimo spreco di tempo, come il titolo di quella famosa canzone. Però, lì dentro si vedono ugualmente tante cose, e anche all’interno di un campo da gioco, o di uno spogliatoio, riconosci subito il leader e il gregario. Quello che tira il gruppo e quello che sta sulle balle a tutti: quello che puoi contarci fino alla fine, e quello che ti mollerà alla prima occasione.

A me, il gesto di Nicolini ha emozionato molto.
E mi avrebbe emozionato anche se fossi stato tifoso del Foggia o dell’Atalanta. Della Billy Milano o del Ceci Noceto Rugby. E ha emozionato persino i tifosi del Genoa.
Per un semplice motivo: con quel gesto, il “Nick” si è messo sul nostro piano. E’ diventato “uno di noi”, nel senso più autentico: quello che descrisse Conrad in quel fantastico romanzo che è “Lord Jim”.
E questo “uno di noi” chiama in causa parole come “onore”, “rispetto”, “cavalleria”, e tutta quella roba un po’ demodè che costituiscono la vera essenza della gente che ama il football.

“Lei è un esempio”, ho scritto a Enrico Nicolini su facebook.
Chissà se mi risponderà…

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Per capire cosa possa rappresentare il football per una città, basterebbe farsi un giro per Napoli questa sera, intorno alle nove.

15 mercoledì Feb 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Per capire cosa possa rappresentare il football per una città, o per una comunità, basterebbe farsi un giro per Napoli questa sera, intorno alle nove.
O anche durante tutta la giornata, con le ore che passano e scandiscono l’avvicinamento graduale alla partita.

Mi piacerebbe esserci.
Perché Napoli è città pazzesca e contraddittoria. E’ tutto e il suo contrario; ha centomila problemi e centomila e una risorsa.
E poi, perché chi ama il calcio ma non ha mai visto una partita del Napoli insieme ai Napoletani, beh… Giuro che si è perso qualcosa. Qualcosa di sudamericano.
Non c’è niente che gratifica quella gente più del poter andare a petto in fuori, orgogliosi della propria città (quando accade); come quella volta che inaugurarono la metropolitana di Via Toledo, ed era così bella e moderna che rimasero a bocca aperta persino i Giapponesi.
Tanto per dire che Napoli è anche questa, e non solo il far west delle periferie… Che, come disse una volta il Sindaco De Magistris, andatevi a fare un giro nelle Banlieue parigine, e poi ne riparliamo.

Stasera l’occasione è storica, perché c’è nientemeno che “O’ Real Madrid”: è una specie di lotta di classe (come ha felicemente titolato la Gazzetta). E il Napoli, stavolta, ci arriva da avversario temuto e rispettato, come ha ammesso anche Zidane.
Ci arriva con la consapevolezza di poter far bella figura davanti a tutto il mondo e confortata dai cattivi presagi che aleggiano sul calcio spagnolo, dopo il tonfo del Barcellona di ieri sera (e Napoli è città superstiziosa). E poi, oggi è il compleanno di Totò, che della città è uno dei simboli più amati; perché faceva ridere, e dietro la risata c’era un uomo malinconico.
E Napoli è anche questo.

Ci saranno diecimila tifosi al seguito; e qui la domanda “ma questi, dove troveranno sempre il tempo, e i soldi?” scatta spontanea.
Ci sarà Maradona, ultimamente alla ricerca spasmodica di visibilità (e questo Napoli deve sembrargli una vetrina niente male).
Che, detto tra noi, non mi sembra né un grande ambasciatore né un eccellente uomo-immagine: ma per capire cosa rappresenti Diego per quella gente, bisognerebbe scomodare l’antropologia.
E naturalmente Sarri, che dipingono come una specie di Cenerentola al ballo di mezzanotte. E invece è uomo non banale, come dimostra la splendida intervista a Condò; dove ha parlato di calcio e di letteratura. Di vita e di provincia toscana. Dimostrando che il successo non è mai casuale.

Napoli è una città eccessiva. Troppo affollata, intanto.
E poi è “troppo” di tutto… Troppo ingenua e troppo furba. Troppo finta o troppo vera: troppo buona e troppo cattiva.
Però, proprio per questo ha “mille colori”, come dice la famosa canzone.
Ed il fatto che stasera giocherà con la maglia nera dispiacerà un po’ a Pino Daniele; ma forse va bene così, perché in campo ci saranno il bianco e il nero.
Ovvero, il tutto e il suo contrario. O anche, i due estremi dentro i quali ci stanno tutti i colori del mondo.

E allora, può darsi che sia la loro partita.

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Grazie di tutto. Maestro.

13 lunedì Feb 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Il commiato di Riccardo Cucchi è stato sobrio e discreto.
Niente grancasse, né melodramma.

Alla radio, d’altronde, si usa così. E questo “allure” elegante (ma non freddo) asciutto (ma non distaccato) è sempre stato una specie di marchio di fabbrica.
Tutti quelli bravi, infatti, partono da lì.
Dalla radio, dico.
Qualcuno ci rimane. Molti sgomitano per trovare posto in televisione, dove si diventa divi più facilmente, e gli stipendi sono più alti.
Ma quelli che rimangono, in genere, sono i più bravi: perché la radio è un posto un po’ magico, come può ben testimoniare chi ci ha avuto a che fare. Magico e impegnativo, dove non esistono i trucchi e le ruffianerie di un programma televisivo.
Alla radio non si bluffa: sei tu e un microfono. Tu, e la gente che ti ascolta dall’altra parte; in casa, nel posto di lavoro o in automobile… Quindi, o hai qualcosa da dire, o sei fritto.

I radiocronisti italiani, poi, sono un’eccellenza. Quelli sportivi, dei fenomeni in miniatura.
Sono gli eredi (degni) di una scuola che viene da lontano, ed ha saputo educare ad un Italiano bello e pulito intere generazioni. Che con Bortoluzzi, Ameri e Ciotti hanno imparato persino a parlare, abitando una lingua che ogni domenica sciorinava sostantivi e aggettivi così lussureggianti che ce li portiamo ancora dietro. Gli “spalti gremiti ai limiti della capienza” e “l’asse mediana del terreno”. Rivera che “effettua il passaggio a beneficio di Prati”, e Cudicini, “che sistema la barriera a protezione del palo di destra”.
Pur nella concitazione dell’evento sportivo, mai un congiuntivo sbagliato, o un sinonimo fuori posto… E dal punto di vista sintattico, una ricchezza che batte la tv sei-zero sei-uno.

Quando eravamo piccoli, quello (e non altri) era il mestiere che ci sarebbe piaciuto. Molto più dell’astronauta o dell’archeologo: niente di più affascinante del poter assistere alle partite e raccontarle, viaggiando in tutti gli stadi d’Italia. Visitare, grazie al calcio, le città più belle d’Europa, tipo “Borussia”, “Feyenoord” o “AstonVilla”. E riempire le domeniche degli Italiani con un sacco di “Scusa Sandro, Vai Enrico”.

Perché a fare la radio, bisogna essere bravi. Non basta essere competenti: devi avere la voce, l’impostazione e anche la cadenza giusta, esattamente come un grande attore di prosa… L’assalto del Bilbao alla Juve raccontato da Ameri è un Iliade moderna; l’incipit di Francesco Repice prima di Real-Juventus è un poema cavalleresco. E dubito che l’Ariosto avrebbe saputo fare molto di meglio.
Andate a riascoltare il duello sulle montagne tra Galdos e Bertoglio del Giro ’75… Chi non si commuove, è un uomo molto infelice.

Mi accorgo, però, che ne è venuto fuori un elogio della radio, più che di Riccardo Cucchi.
Ma, forse, gli risulterà gradito proprio per quello; visto che dell’eleganza e della discrezione ne ha saputo fare una bandiera. Mettendoci a disposizione una voce e un grande talento, anziché la faccia.
E anche per questo, grazie di tutto.
Maestro.

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