Riccardo Lorenzetti Blog

~ Per fortuna che c'e' il Riccardo

Riccardo Lorenzetti Blog

Archivi Mensili: maggio 2017

“Evidentemente, quelli che sotto la spinta dei Social Network auspicavano di poter vivere in un mondo più civile e intelligente, si erano illusi di brutto…”

30 martedì Mag 2017

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Si tratta di porcate vere e proprie.
Anche se vogliono farle passare per “provocazioni”.

Che già di per se sono robe inutili.
A me pare che il mondo sia già abbastanza fuori di testa, e di tutto abbia bisogno tranne di qualcuno che lo “provochi” ulteriormente.
“Ho voluto fare una provocazione”, dice l’intellettuale, il politico o l’opinionista televisivo… Ed ecco che qualsiasi corbelleria, parolaccia o scontro verbale viene immediatamente sdoganata. E derubricata.
Talvolta, sale addirittura di livello. E diventa “provocazione intellettuale”. Che fa più chic, evidentemente… Come quelli che non avevano sfangato la terza elementare ma esibivano nomi altisonanti: tipo il povero Quintiliano.

Nel mio mondo ideale, per esempio, quell’emerito coglione che telefona alla radio privata e si augura la morte dei tifosi della Juventus (ma pensa te…) viene processato per direttissima e si prende tre giorni di prigione (tre giorni, non di più). Il conduttore di quella trasmissione, che ne condivide il delirio, di giorni di prigione ne prende cinque.
E quelli che il giorno dopo tirano in ballo la “provocazione”, vengono spediti ai lavori forzati di Alcatraz, con tanto di pigiama a righe e palla di ferro al piede.

Evidentemente, quelli che sotto la spinta dei Social Network auspicavano di poter vivere in un mondo più civile e intelligente, si erano illusi di brutto… E anche gli estimatori di Federico Buffa, che si incollano alla televisione, ipnotizzati dalla bellezza dello sport, e delle storie che si sviluppano al suo interno. E sanno emozionarsi con il Mennea del 1980 e il Coppi del ’53; con il Grande Torino e il giro di campo di Totti.

“Come dare il concime alle colonne della luce”, diceva il vecchio Sabatino… Sintetizzando in maniera più articolata il concetto delle proverbiali “perle ai porci”, o della più prosaica “cravatta al maiale”.
Il social Network ci porta alla luce un’umanità indistinta, e a volte raccapricciante: come certi archeologi che ogni tanto tirano fuori un femore, e scoprono che apparteneva all’ uomo di Neanderthal.
E allora ecco che quell’emerito idiota della radio diventa immediatamente un piccolo oggetto di culto; una specie di icona da venerare sull’altare della bischeraggine umana. Che in quel caso prende la forma dell’odio verso una squadra di calcio, e i suoi tifosi, ma spesso si traveste anche con altri indumenti.
E alla fine della “provocazione” (più o meno intellettuale), dopo trecento commenti che partono dal Vesuvio e arrivano a Superga, vale la sintesi dell’Asilo Benomarri, quando si scatenavano le risse per un appuntalapis: “hanno cominciato prima loro”.

Sappiate, piuttosto, che oggi è il giorno dell’Heysel.
Ecco.
Prendetela come una provocazione.

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Vedere solo un pallone che rotola è come non vedere niente. E chi non lo capisce, non sa cosa si perde.

29 lunedì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Hanno scritto una piccola pagina di storia sportiva, ierisera.
Perché Roma fa anche di questi scherzi.

I più disincantati dicono che deve essere per quello che non vincono mai.
E allora mettono nell’albo d’oro le robe “de core”… Quelle dove ci si emoziona molto: che sono ricche di lacrime e sentimento ma povere di metallo (inteso come coppe da alzare al cielo).
Un tifoso mi disse, una volta, che il suo ricordo più bello fu quando fecero la partita d’addio a Bruno Conti, e allo stadio c’era più gente della Finale di Coppa Uefa che avevano giocato qualche giorno prima.
Mi parve una “boutade”.
E invece lì dentro c’era tutta Roma. E la sua magia.

Non torneremo, allora, sul campione che tramonta, e diventa “ingombrante”, suo malgrado: lo abbiamo già detto e ripetuto millanta volte, anche quando il benservito toccò a del Piero,o Paolo Maldini… Il mondo è diventato cinico, ormai, e lo sport non fa che seguirne le regole.
Però, ieri Totti ha fatto commuovere tutti.
Anche Repice si è emozionato forte, alla radio. E Caressa lo ha addirittura definito “il più grande artista del calcio italiano di tutti tempi”.

Ora, non saprei dare una definizione precisa di “artista”, nel pallone.
Mi viene in mente Rivera, per esempio. Ma va detto che Rivera giocava in tempi di minore esposizione mediatica: la Domenica Sportiva, e poi tutti a nanna.
Totti, invece, ha attraversato il momento nel quale il calcio ha smesso di essere uno sport e si è annacquato nello spettacolo, se non nel puro ’intrattenimento: quello del gossip e delle azioni rallentate con le musiche in sottofondo. I “Calciatori Brutti”, “La Fatica di essere Bomber” e i social network che fanno il controcanto.
L’ultima partita di Rivera fu un Milan-Bologna che valeva la “stella”: gli misero un megafono in mano per convincere alcuni tifosi riottosi a tornare sulle tribune, dopo che per il troppo entusiasmo avevano invaso il campo da gioco.
E fu tutto lì.

Poi, ci sarebbe Baggio. Che come artista non è stato da meno di Totti, però è durato molto meno.
Ma Baggio, per quanto fantastico, era anche campione più “freddo”. E quando ha smesso, non ha trovato una città intera che piangeva per lui: giusto un paio di giri di campo a Brescia, che infatti è dieci volte più piccola di Roma.
Solo Firenze gli ha riservato l’amore autentico che non ha poi trovato né alla Juve, né all’Inter né al Milan; ed è per questo che il Baggio iconografico indossa la maglia azzurra della Nazionale, e non del Club di appartenenza.
Solo a Pablito è toccata la stessa sorte..

Totti in Nazionale, invece, dava l’idea di giocarci un po’ controvoglia: come se quel rapporto così viscerale con la sua città (e il suo popolo) pretendesse una specie di esclusiva.
Che qualcosa, alla fine, gli è pure costata… Perché Totti, a livello internazionale, è stato si ammirato, ma non ha mai raggiunto vette di popolarità da Star assoluta.
Ma i posteri, probabilmente, saranno più indulgenti di molti contemporanei: e quella bacheca invero povera di trofei finiranno per considerarla più meritevole dei tanti successi che il campione non ha ottenuto.

Ma ierisera, Totti (e il suo popolo) hanno scritto una pagina di storia calcistica.
Una pagina che ricorderemo per chissà quanto tempo.
Utile per ribadire una volta di più che vedere solo un pallone che rotola è come non vedere niente, anche in questi tempi foderati di cinismo.
E che, soprattutto, il calcio sono queste cose qui.

E chi non lo capisce, non sa cosa si perde.

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C’era uno scrittore (Graham Greene, mi sembra) che lo chiamava “Il Fattore Umano”.

24 mercoledì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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C’era uno scrittore (Graham Greene, mi sembra) che lo chiamava “Il Fattore Umano”.
Ci scrisse sù anche un romanzo di successo: che diceva, più o meno, come al di là dei calcoli, alla fine dei conti si trova sempre l’uomo.
L’uomo con il suo carattere, i suoi stati d’animo, le sue debolezze ed i suoi istinti.
E quasi sempre sono quelli a determinare il corso della storia.
O di una storia.

Il ciclista Tom Domoulin ci insegna che si può perdere un Giro d’Italia, per un “Fattore Umano” del genere. Anzi, verrebbe da dire per il “Fattore” più “Umano” che esista.

La scena è stata immortalata per qualche secondo dalle telecamere RAI: poi il regista (impietosito) ha cambiato inquadratura.
Una scena capitata ad ognuno di noi, almeno una volta nella vita: quando siamo a cercar funghi, a fare una passeggiata nei boschi, ad accompagnare il cane o robe del genere… Arriva lo stimolo, tiri giù le mutande e via andare.
E’ uno di quei momenti nei quali più ti senti in sintonia con la natura ed il mondo intero: il povero Ottorino, addirittura, non esitava ad inserirlo tra i primi quattro-cinque veri piaceri della vita.

Che poi, lo sport non è mica nuovo a certi “incidenti”.
Il ciclismo, per esempio, è pieno zeppo di piccoli particolari che possono decidere una grande corsa: ricordo parecchie Classiche dove i favoriti sono andati kappaò a causa di un tifoso che si sbraccia troppo, o di una moto-staffetta che sterza incautamente. E il grande Louison Bobet, dicono, perse financo un Tour de France per una tavoletta di cioccolato che gli procurò una fastidiosissima emorroide.
Più prosaicamente, Luca Vialli ha recentemente raccontato di un suo bisogno impellente prima dei supplementari di una finale di Coppa Italia: “Ti se propi un mona”, gli disse ridendo l’arbitro Agnolin. Che prolungò l’intervallo per aspettarlo.
A Luigione Ganna, i perfidi Francesi dei primi anni del secolo mettevano il guttalax nello zabaione, e ricordo una tappa a cronometro fine anni 70 che costò il Giro d’Italia a Francesco Moser.
Tutti aspettavano il grande campione trentino, e questi non arrivava mai… L’imbarazzo di Adriano De Zan toccò il diapason: “Pregherei adesso la regia di inquadrare Moser, impegnato nella rincorsa…”.
Ma la regia non riuscì nell’intento: perché Moser era impegnato in tutt’altro genere di rincorsa, dietro un pagliaio al ciglio della strada.
E quel Giro, alla fine, lo vinse Pollentier. O De Muynck. O chissà chi.

Dicono che Domoulin (che ha comunque mantenuto la maglia rosa) si sia parecchio lagnato degli avversari. Che hanno contravvenuto, secondo lui, a quello scrupolo cavalleresco proprio di tutti gli sport, e che impone di abbassare le armi quando un rivale è fuori combattimento.

La risatina è d’obbligo, in questi casi. Ed anche la constatazione che il “Fattore Umano” ha sempre il suo peso specifico.
In un mondo fatto di statistiche, calcoli al computer ed algoritmi, pensare che una vittoria (o una sconfitta) possa essere decisa da una cagatina dell’ultimo momento, è persino consolante.

Però, adesso, tocca fare il tifo per Domoulin.

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“Mi dispiace” –li congedò- “Ho appena stretto la mano a due vostri colleghi. E la stretta di mano è sacra”. Roba ottocentesca. Come la Spal.

15 lunedì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Andremo pure verso la tecnologia, la Var e le riprese televisive in ultra HD. Verso gli stadi super tecnologici ed i biglietti online.

Eppure, quando avvertiamo nell’aria qualcosa che profuma d’antico, è come se arrivasse una boccata d’ossigeno.
E’ il paradosso del football, e forse anche la sua vera essenza.
Ovvero, il fascino che sprigiona una tradizione; quello che lo rende unico e assolutamente inimitabile… Il bastione di difesa sul quale ripiegare di fronte all’avanzata imperiosa degli sceicchi, dei Cinesi e dei magnati del gas.

La Spal, per esempio, ha sapore addirittura ottocentesco: a cominciare da quell’acronimo (Società Polisportiva Ars et Labor) che ci rimanda a quando le società sportive si prendevano molto sul serio: loro, e la missione alla quale tendevano, che non era solo esercizi di ginnastica, pedate ad una palla o tirare di scherma. Piuttosto, un apostolato fisico-spirituale in grado di elevare l’individuo, e il suo ruolo nella società… Per questo si chiamavano “Mens Sana”, “Pro Patria”, “Virtus” eccetera.

Un profumo ottocentesco, per non dire Rinascimentale. Se è vero (come dicono) che il biancoceleste della Spal fu un gentile omaggio alla famiglia Este, e all’araldica di quella casata che fece di Ferrara un Ducato modello per civiltà, gusto e raffinatezza… Gente che se decideva di imbiancare casa, non scendeva sotto Raffaello, o Tiziano.

La Spal, negli anni cinquanta-sessanta, era una specie di Atalanta “ante-litteram”: lanciava giovani calciatori, li valorizzava e con quelli guadagnava i soldi necessari per affrontare il campionato successivo; una virtuosa Catena di Sant’Antonio che li tenne in serie A per quindici anni (dal ’53 al ’68). La guidava Paolone Mazza; uno di quei “padri-padroni” che nel calcio hanno sempre avuto diritto di cittadinanza… Personaggi che stavano a metà strada tra il bottegaio e il talent-scout: se non addirittura del “fattore”, ai tempi della mezzadria. Gente, comunque, con un gran senso degli affari e l’occhio lungo… Talmente lungo che in quegli anni non c’era giovane promettente che la piccola Spal non avesse visionato prima degli altri.

Un giorno andarono anche a Pieris (in Friuli) per convincere il papà di un certo Fabio Capello a firmare il primo contratto da professionista del figlio, che si diceva assai promettente.
Cosa che quel galantuomo (maestro di scuola elementare) fece con estrema riluttanza, perché nella mentalità dell’epoca lo status del calciatore stava parecchio sotto quello del ragioniere o dell’impiegato del comune… E un filino sopra il cantante del Tabarin e la ballerina del Varietà.
Il vecchio maestro Capello, invece, era uomo all’antica: così, quando una settimana dopo arrivarono gli emissari dell’Inter che proponevano un ingaggio raddoppiato, non stette a pensarci due volte: “Mi dispiace” –li congedò- “Ho appena stretto la mano a due vostri colleghi. E la stretta di mano è sacra ”.

Roba ottocentesca.
Come la Spal.
Per la quale (il prossimo anno) faremo tutti il tifo.

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“I bravi cercano la palla. I coglioni cercano l’uomo… E qualche volta, gli fanno del male”. Se a qualcuno Glik è piaciuto, affari loro.

11 giovedì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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C’è una teatralità, negli stadi, che può piacere o non piacere.
A me il Cholo Simeone, dopo un po’, stucca.

Mi succede, più o meno, dopo la quarta volta (in dieci minuti) che alza le braccia e incita il Vicente Caderon ad aumentare i decibel del tifo.
All’inizio, mi piace.
Poi, ci vedo la recita di un copione.
Come il mio adorato Quagliarella, che trattiene l’esultanza quando segna alle sue ex squadre. E ne ha girate così tante che ad ogni gol segnato, deve star lì a pensare il dà farsi.

Del football mi piace l’aspetto romantico (of course) e l’istinto che vi si sprigiona. Però, come il Cholo, anche i Materazzi, i Di Canio o i Gattuso non mi incantano più… Quelli, insomma, che al loro ruolo di “Defensor Fidei” tenevano molto, con atteggiamenti sotto la curva ai limiti dell’isteria.
Con tutta la popolarità spicciola che ne derivava e che (dicono i malpensanti) veniva messa sul piatto al momento di ridiscutere l’ingaggio.

Il tifoso, d’altronde, spasima per questo. Nella sua immaginazione, tende ad identificare il campione con se stesso, e la propria passione.
Per questo, la carognata di Glik a qualcuno è persino piaciuta.
Perché, evidentemente, vi si è visto il gesto orgoglioso del vindice che fa giustizia contro i (pre)potenti. Per quel singolare sillogismo che una pedata ad un calciatore della Juve va sempre a buon segno. E spesso vale doppio (almeno nell’aritmetica degli allocchi).

Ora, è abbastanza evidente che il popolo torinista abbia caratteristiche e dinamiche tutte particolari. E che poche tifoserie raggiungano quel livello di identificazione con una maglia (e una storia leggendaria) così esclusivo e totalizzante.
Però, si potrebbe dire che se Glik si sentiva così tanto granata nell’anima, beh… Poteva rimanerci. E in nome di quel sentimento, rinunciare all’ingaggio doppio che gli ha offerto il Monaco.

Invece, ha fatto solo una brutta figura. In mondovisione, peraltro.
La stessa che fece Paolo Montero a Manchester 2003, quando Lippi lo piazzò sulle piste di Sheva con la chiara consegna di renderlo innocuo.
E ne uscì una marcatura intimidatoria che Mario Parri, nella sua saggezza, sintetizzò così: “Ha giocato nel ruolo di sicario… Come succede al torneo di Farnetella.”.

Se a qualcuno Glik è piaciuto, affari loro.
A me ha fatto venire in mente il povero Franco Pavolucci, che negli anni 50-60 aveva giocato da centromediano a buoni livelli, e da quel football un po’ naif ne aveva saputo trarre squisite regole di vita.
“I difensori si dividono in due categorie” –diceva- “i difensori bravi e i difensori coglioni” (diceva proprio così).
“E come si fa a riconoscerli?” gli chiedevo.
“I bravi cercano la palla. I coglioni cercano l’uomo… E qualche volta, gli fanno del male”.

Non ho mai trovato sintesi più efficace per descrivere il gioco del calcio.

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Aveva addosso una ribalderia selvaggia e non arginabile. E questo rendeva Gilles un campione speciale.

10 mercoledì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Era un piccolo artista, Gilles Villeneuve.

Ogni tanto mi fermo a guardarlo in un programma che va in onda sulle reti Sky e che si chiama “F1 Retro”.
Che, più di altri, ci dà la misura di quanto abbia camminato il mondo negli ultimi trenta, quarant’anni. In termini di velocità, di tecnologia e di tutto il resto.
Compresa l’informazione, naturalmente.

Perché quando morì Gilles, per esempio, noi si seppe dal telegiornale delle due; quello del secondo canale, condotto (probabilmente) da Mario Pastore.
Non c’erano le dirette delle prove libere, allora. E nemmeno i “Race Anatomy”, l’interattività e tutto il resto.

C’erano i piloti che morivano come mosche, invece… Almeno uno, se non due all’anno.
Una roulette russa.
E se vedi “F1 Retro” capisci anche il perché: monoposto che erano piccole casse da morto, criteri di sicurezza inesistenti, il pubblico a due metri dalle automobili che sfrecciavano. Addirittura i pericolosissimi guard-rail a bordo pista, uguali a quelli che mettevano sulla Cassia e sull’Aurelia.

E Gilles, ci rimise la pelle.
Perché era il più coraggioso di tutti. E, tra i piloti di allora, il più ingenuo, e il meno calcolatore.
Non il più vincente, intendiamoci. Perché Villeneuve, alla fine, vinse pochissimo: sei Gran Premi su settanta. E due Pole Position.
Cifre modeste.
Eppure, ci piaceva anche per quello… Forse perché vivevamo un’epoca, come lui, un po’ “naif”. Non ancora pronta a recepire l’idea della vittoria ad ogni costo: e dove anche il secondo valeva un poster in camera.

Così, quel Canadese piccolino che ci metteva il cuore, seppe emozionarci.
Andando oltre il limite di una Ferrari buona, ma non buonissima. Che ai tempi di Villeneuve arrivava dietro alla Williams di Alan Jones e alla Brabham di Piquet.
E anche alla Lotus, la macchina più bella mai vista nelle corse. Perché era nera come la Bat-Mobile, bordata in oro ed il logo “John Player Special” sulla scocca.
Così bella che chi aveva un pacchetto di quelle sigarette, le custodiva come un francobollo raro… Salvo poi avvilirsi quando arrivava il Cecca (che era più grande, e quindi poteva fumare in pubblico) e ci gelava: “Ohè… Sono più cattive delle MS”.

Cambiando la Formula Uno, sono cambiati anche i piloti.
Che, da Schumi in poi, sono diventati dei fantastici computer: creando un tutt’uno con la tecnologia iperspaziale della quale dispongono.
Ma dovessi paragonare lontanamente Gilles ad uno di adesso, direi Verstappen. Il ragazzo della Red Bull che ogni volta ti dà l’impressione di metterci un centimetro in più degli altri.
Villeneuve, quel centimetro lo faceva diventare un metro.
Aveva addosso una ribalderia selvaggia e non arginabile: quell’istinto per il duello ruota a ruota e per la staccata oltre il limite che nelle auto si è quasi perduta, e che resiste invece negli acrobati delle Moto GP.
Ricordo un suo duello memorabile con Arnoux della Renault, con due giri da suicidio: una lotta senza quartiere tra due piloti che si contendevano… il quarto posto (!).

E questo rendeva Gilles un campione speciale.
Soprattutto se filtrato con le lenti di adesso, dove la strategia del muretto box calcola in tempo reale il consumo benzina e la convenienza in millesimi tra le soft e le ultrasoft.
“Uffa, ‘sta safety car… Villeneuve gli sarebbe montato sopra”, disse lo sconsolato Marcello assistendo ad uno dei (tanti) noiosi Gran Premi di adesso.

“Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra. La terra si scosse, le rocce si spezzarono”.
E’ un passo del Vangelo di Matteo.
Ed è esattamente ciò che provai quando il secondo canale, quel pomeriggio, dette la notizia della morte di Gilles.

Ci vollero dieci anni prima che tornassi a rivedere un Gran Premio.

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Il campione che diventa monumento, e fatalmente troppo ingombrante. Poi, lo rimpiangeremo.

09 martedì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Totti e, naturalmente, gli arbitri che favoriscono la Juventus.
Niente di nuovo sotto il sole.
In attesa della moviola in campo, le notizie che ci propinano sono sempre le stesse: come ai Monopoli, che giri in tondo tutta la sera e poi ti ritrovi invariabilmente al punto di partenza.
Dove puoi ritirare ventimila lire.

Su Totti, vale il discorso già fatto sui calciatori quando (loro malgrado) diventano ingombranti. Come succedeva alla Juve quando Giovinco (o Matri) sbagliavano uno stop e la gente cominciava a rumoreggiare. Fino a scatenare un’ovazione quando Del Piero, finalmente, si alzava dalla panchina e cominciava ad effettuare un accenno di riscaldamento.
Spalletti, invece, è diventato abbastanza sadico da negargli ormai anche quel piccolo proscenio; ma i rapporti, ultimamente, devono essersi parecchio incancreniti, al di là delle dichiarazioni di facciata.

E’ un problema di orgoglio, penso.
Che è una delle caratteristiche di un campione. Ed è anche in ragione di quello che si tende a rimandare l’addio dalle scene… Perché smettere vuol dire sì rinunciare al denaro, ma soprattutto significa uscire dal cono di luce.
Come quelle “bandiere” che si vedono ogni tanto in tribuna o, peggio ancora, nelle partite tra le vecchie glorie; e che nessuno cerca più nemmeno per farti gli auguri di buon compleanno, dopo che per tutta una carriera bastava uno sbadiglio e finivi in prima pagina.
In questo senso, l’ideale rimane Platini, che disse basta all’improvviso; senza quelle tentazioni abbastanza miserevoli tipo Gilardino, che non fanno giocare nemmeno a Pescara, o peggio ancora Del Piero, Materazzi e gli altri che andarono nel campionato indiano. Che li fecero passare per intrepidi pionieri, e invece apparivano come brutte Gloria Swanson, fuori tempo massimo peraltro.

Forse Totti avrebbe fatto meglio a chiudere l’anno scorso. Detto con il senno di poi (ma non era difficile immaginarlo).
Ci avrebbero risparmiato un teatrino che non ha giovato né a lui, né a Spalletti e nemmeno all’AS Roma.
Dove, detto per inciso, sono in molti che auspicano di non averlo più tra i piedi.
Perché il meccanismo è sempre il solito: il campione che diventa monumento, e fatalmente troppo ingombrante.

Poi, lo rimpiangeremo.
La stessa cosa che successe per Baggio.

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Il Toro è una fede. Lo è per loro, principalmente. Ma lo è per tutti quelli che amano il football di un amore autentico.

03 mercoledì Mag 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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La bellissima foto di Bonucci, con il figlioletto che adora il Gallo Belotti (e costringe il babbo ad andarlo a vedere) ci suggerisce una cosa.

Che a squadre come il Torino, non si può voler male.
E lo testimoniano le migliaia di “like” che quella foto ha ricevuto.
Chi gli vuol male (al Toro, dico) lo fa a suo rischio e pericolo: pericolo di rendersi ridicolo, prima di tutto.,.. Come ridicoli (oltreché beceri) risultano invariabilmente quei tre cialtroni da stadio che ogni tanto inneggiano a Superga, all’Heysel o al Vesuvio.

Va pur detto che quella foto è stata accolta, dagli stessi tifosi granata, con qualche perplessità… Perché dalle loro parti funziona molto una strana, orgogliosa “sindrome da accerchiamento”: quella degli indiani contro i cowboy, i “soli-contro-tutti” che connota da sempre la loro splendida, emozionante, e sfortunatissima storia.
E che Bonucci abbia il figlioletto che tiene al Toro, beh… forse li ha un po’ spiazzati: perché Bonucci impersonifica più di altri il cosiddetto “Stile Juve”. E quindi, il Nemico Assoluto, se non addirittura l’Impero del Male.
E’ quello che non ride mai, ha sempre il ghigno in faccia e il petto in fuori, e talvolta lo beccano in castagna che sbraita in faccia all’arbitro: è uno che (per simpatia) sembra destinato a raccogliere l’eredità di Boniperti e di Bettega… Strepitosi campioni, ma che sulla “Juventinità” se la tiravano un po’ troppo; mentre quelli come Scirea, o lo stesso del Piero, risultavano più graditi.

Non è nemmeno una novità, questa del campione che si alleva una “serpe in seno” (detto con tutta la simpatia del mondo, weh..).
Successe qualcosa del genere a Costacurta, che da capitano del Milan rivelò la passione nerazzurra del suo ultimogenito. Fu una rivelazione che l’intelligente campione veicolò in maniera simpatica… E l’Inter fu altrettanto carina (e geniale) nel far immediatamente recapitare al piccolo un completino originale ed un biglietto di tribuna per il derby… Da sfruttare, però, con l’accompagnamento obbligatorio del genitore.

Sono aneddoti simpatici.
Quantomeno, ci danno la misura di come lo sport offra variegate possibilità di sorridere, se maneggiato nel verso giusto… Mondato da quella faziosità spinta che spesso ci impedisce di coglierne i suoi aspetti più variopinti.
E ci aiutano a cogliere, nel sorriso di quel bambino, il fascino eterno di un Club come il Torino FC.
Che appartiene a tutti noi, e che nessuna faziosità può permettersi di intaccare. Nemmeno quella dei suoi stessi tifosi, spesso troppo risoluti in un’autocommiserazione che sfocia nel complottismo.

Il Toro è una fede.
Lo è per loro, principalmente.
Ma lo è per tutti quelli che amano il football di un amore autentico.
E che sentono il dovere di togliersi il cappello per il grande Manchester United che perì a Monaco, o per la Chapecoense. E per i caduti di Hillsborough, dell’Heysel e di tutte le tragedie che hanno accompagnato il cammino del calcio.

E che il 4 maggio ascoltano i rintocchi della campana di Superga e sorridono, dopo quasi settant’anni.
Perché, magari, non sono nemmeno tifosi del Toro.

Ma sanno, in cuor loro, che quella squadra era la più grande di tutte.
E non esisterà mai una capace di batterla.

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    La Liberta' e' un Colpo di Tacco / a Teatro con Roberto Ciufoli CLIP

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