Riccardo Lorenzetti Blog

~ Per fortuna che c'e' il Riccardo

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Archivi Mensili: giugno 2017

Poi, di Primo Carnera non se n’è parlato più….Improvvisamente….

30 venerdì Giu 2017

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C’è stata una generazione cresciuta nella convinzione che Primo Carnera (50esimo della morte, oggi) fosse l’uomo più forte del mondo. Più di Ursus, di Sansone, di Maciste e di tutti quei personaggi mitologici dei nostri nonni, che non conoscevano i supereroi.

Poi, di questo Carnera non se n’è parlato più.
Improvvisamente.
Come se fosse diventato qualcosa di imbarazzante, e dunque da nascondere dentro un armadietto chiuso a chiave… Nonostante sia stato uno dei più famosi pugili italiani di tutti i tempi e forse (ma potrei sbagliarmi) l’unico a conquistare la corona mondiale dei pesi massimi. Che di tutte le categorie è la più prestigiosa.
Capita anche quello. Soprattutto se poi ti fanno diventare un simbolo politico, più che sportivo. E soprattutto se sviluppi la tua carriera nel bel mezzo di una dittatura, che di questo genere di campioni ne è notoriamente ghiotta. Per questioni di prestigio, di immagine e di propaganda.

Perché una dittatura finisce, prima o poi.
Ma per farla finire occorrono passaggi violenti, tipo una rivoluzione, o una guerra, con tutto quello che si portano dietro. E allora bisogna riscrivere la storia, facendo un bel mazzetto di tutto quello che è successo e gettandolo nel tombino… Acqua sporca e, talvolta, il bambino che c’è dentro.

A Carnera, poveraccio, successe così.
Popolarissimo in un’epoca piena di retorica e di parapaponzi, dove tutto faceva brodo per alzare il morale di gente povera e affamata ma pur sempre protesa alle ore segnate dal destino e alla gloria di Roma Imperiale; ed eccolo, allora, il Gigante Italiano che abbatte a suon di pugni i nemici perfidi e cattivi, simboli delle demo-pluto-democrazie, all’epoca onnipresenti. E l’orgoglio dei nostri emigranti, ovviamente; che in America erano la comunità più numerosa (con gli Irlandesi), e bisognava regalargli un idolo sportivo per tenerli un po’ buoni.
Di quell’Italia, il prode Carnera era il campione e il vindice. E lo era a tal punto che quando trovava qualcuno più forte di lui, non se ne dava la notizia: “mai pubblicare foto di Carnera a terra”, ordinava una circolare del famigerato Minculpop (che era una specie di ufficio della censura).

Non era, ovviamente, l’uomo più forte del mondo.
Né il più grande pugile della storia.
Era piuttosto un boxeur potente, ma assai grezzo, che ad un certo punto fu molto funzionale al giro delle scommesse e degli incontri combinati, che nel pugilato non mancano mai. E infatti, quando si trovò davanti pugili decentemente impostati e di buona tecnica, Carnera non ebbe scampo.

Poi, arrivò la guerra. E con essa, il declino dell’atleta e soprattutto di tutto quello che ,suo malgrado, Carnera aveva finito per rappresentare.
Si ritrovò solo e spiantato, messo in mezzo da investimenti sbagliati e ruberie varie: per combinare pane e minestra si ridusse a fare l’attrazione di un circo equestre, con tanto di costumino leopardato, precursore dell’odierno wrestling.
E intanto cresceva la nostalgia per l’Italia che di lui, però, non ne voleva più sapere o quasi.
A Sequals (dove era nato, in Friuli) tornò giusto per morire. E, anni dopo, gli dedicarono un museo così piccolo e insignificante che persino gli abitanti del paese ne ignoravano l’esistenza.
Così, finirono per ammazzare due volte Primo Carnera, il Gigante Buono.
Che un grande campione non lo fu mai.
Ma fu invece un uomo semplice e perbene, costretto a recitare un ruolo spropositato che la storia gli aveva cucito addosso

“Muoio felice”-disse al termine dei suoi giorni- “Perché ho preso tanti cazzotti in vita mia. Ma rifarei tutto, perché quei cazzotti sono serviti per far studiare i miei due figlioli”.
Che, infatti, diventarono, lei una stimata insegnante e lui un eccellente medico.

E furono la vittoria più bella di Carnera.

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Ma quel numero sette con il nasone gli aveva rubato la scena, e lui voleva a tutti i costi complimentarsi di persona, e stringergli la mano. Sportivamente e sinceramente, come imponeva la cavalleria.

27 martedì Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Al nostro piccolo Gruppo Sportivo capitò di giocare anche a San Casciano dei Bagni.
Diverse volte.
La prima volta si faceva gli amatori… Si pareggiò 1-1. E segnò un certo Tommaso Bichi Ruspoli Forteguerri. Un Marchese vero. Il rampollo di una famiglia nobile che aveva possedimenti in Valdorcia.
Non era un campione, ma aveva una passione incredibile.
Quando si perdeva, avevamo la scusa pronta: “per forza s’è perso… si giocava col Marchese”.
Che ci vuole un po’ a capirla, ma quando si è capita è una gran bella battuta.

Un’altra volta si giocò una partita delle giovanili. Era una domenica mattina.
Il nostro allenatore era Memmino della Cooperativa. Che aveva l’850 verde bottiglia, e per fare il tragitto Petroio-Sancascianobagni (40 km) impiegò due ore e venti minuti.
Si vinse, e Memmino alla fine tirò un sospiro di sollievo: ”Ovvia… Ora, però, al ritorno facciamo piano”

Poi, ci si giocò nel 1981. Quando ci allenava Tamascio del Montefollonico.
Tamascio era un brav’uomo… Prese la squadra che era penultima e nel giro di tre mesi la portò al terzo posto.
Come fece, non si sa. Dicono che fu un fatto di allenamenti.
Quello che c’era prima, forse, li allenava troppo, e tutti i giocatori finivano imballati.
Tamascio, invece, faceva un giro di campo al trotto e poi subito la partitella: non si sa come, ma il Petroio non perse più.

Ci si presentò a San Casciano Bagni che loro erano primi in classifica, e avevano ogni domenica 400 persone al campo sportivo. Tra gli spogliatoi e il campo c’era una specie di passaggio recintato con una rete del dodici, di quelle che si usano per i pollai. Se a quel pubblico non tornava qualcosa, alla fine del primo tempo ti aspettavano, e infilavano gli ombrelli dentro i buchi della rete.
Se la facevano addosso anche gli arbitri più esperti.

Però, la squadra che avevano, era magnifica.
Campioni mai visti per la terza categoria. E in più, il fenomenale Massimo Cristiani, che veniva da Trastevere, e da ragazzo giocava nella juniores della Roma insieme a Bruno Conti.
E quello famoso, era lui.
Era uno spettacolo, quel giocatore lì: era alto, atletico, un po’ stempiato. Il leader indiscusso della squadra e l’idolo della tifoseria. E quando prendeva il pallone, tutto il camposportivo si alzava in piedi per vedere cosa inventava.

Tamascio rimase un po’atterrito a vedere quell’ambiente: lesse la formazione negli spogliatoi, distribuì le maglie e la partita cominciò.
Il Sancasciano partì fortissimo, sciorinando un calcio da brasiliani… Il grande Cristiani, sembrava un maestro d’orchestra; ogni pallone, un’invenzione: un bel cross, un grande tiro, una fantastica apertura…
Però, dall’altra parte, Tamascio aveva messo con il numero sette un tipo tracagnotto; con un nasone un po’ adunco e le gambe storte, che mano mano passavano i minuti, strappava l’ammirazione di quel pubblico immenso e feroce.
Da una parte c’era il grande Cristiani che dipingeva calcio; dall’altra questo sconosciuto numero sette che non gli era da meno; e dai suoi piedi uscivano giocate sbalorditive… Inusuali anche per quella gente, abituata al grande football.

Finì uno a uno.
E fu proprio quella l’unica partita che il grande San Casciano non riuscì a vincere, in casa.
Però, il pubblico non ci prese a ombrellate, come si temeva.

Alla fine, anzi, si alzò in tribuna un mormorio, poi un timido battimani e infine un applauso scrosciante per il piccolo Petroio, che si era battuto bene… E che, soprattutto, gli aveva fatto vedere quel numero sette, che nessuno conosceva, ma che era un vero spettacolo per gli occhi. E per classe, non aveva niente da invidiare ai campioni del fenomenale San Casciano.

A fine partita, dopo la doccia, il grande Cristiani volle scendere nel nostro spogliatoio, per congratularsi personalmente.
Quella domenica, aspettavano tutti lui.
Ma quel numero sette con il nasone gli aveva rubato la scena, e lui voleva a tutti i costi complimentarsi di persona, e stringergli la mano. Sportivamente e sinceramente, come imponeva la cavalleria.

Questo era Massimo Cristiani, grande fuoriclasse di Roma.

L’altro, era Fulvio Benvenuti.

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Della Grande Inter, Picchi fu il perno difensivo e, probabilmente, l’uomo più importante. Riposa in pace, grande Capitano. Oggi, avresti compiuto gli anni.

19 lunedì Giu 2017

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Mi sono sempre chiesto perché abbiano intitolato il piccolo camposportivo del mio paese ad Armando Picchi. Un calciatore vero della serie A; di quelli da figurine Panini e da Domenica Sportiva, anzichè la classica gloria locale.

Un giorno, mi spiegarono il motivo.
Succedeva che stavano piantando degli alberelli intorno all’impianto, ormai prossimo all’inaugurazione, quando arrivò trafelato un ragazzino, che aveva appena ascoltato la notizia alla radio…: “E’ morto Armando Picchi”.
Scese il gelo. E tutti si trovarono d’accordo nell’intitolargli quel piccolo campetto: seduta stante e con decisione irrevocabile e insindacabile.

Era Toscano, il Capitano della Grande Inter.
Di Livorno, precisamente; e questo solleticava anche un certo orgoglio regionalistico che allora era fortissimo e adesso si è molto annacquato (basta vedere quanti pochi bambini tengono la Fiorentina, che all’epoca era invece la squadra più popolare).
Si giocava un calcio acerbo e spicciativo: “la prima entrata, falla bella decisa- gli suggeriva il grande Magnozzi, che lo allenava a Livorno- “… e il primo pallone che ti capita, calcia più forte che puoi verso la tribuna”.
Piccoli trucchetti per infiammare il pubblico dello stadio Ardenza, che non aspettava altro per spellarsi le mani… : “Boia, deh… Che legnata!”, e già quello valeva il prezzo del biglietto.
Che sembra roba da ridere, ma è lo stesso escamotage del grande Real Madrid, quando aveva bisogno del sostegno del Bernabeu: e del famoso “miedo escenico” teorizzato poi da Jorge Valdano.

Della Grande Inter, Picchi fu il perno difensivo e, probabilmente, l’uomo più importante: per carisma, personalità e capacità di guida tecnica. Sissignori, avete capito bene: guida tecnica, perché il Mago sarà pur stato un cannone nel motivare gli uomini (in quello, era imbattibile), ma in quanto al resto, lasciamo perdere.
La squadra, in campo, gliela riquadrava Picchi: “tu prendi quello”, “tu cura quell’altro”… E così nacque un’Inter formidabile, che dominò la scena negli anni 60: Suarez pennellava da quaranta metri, e sul lancio partivano in sincro Jair e Mazzola, che erano due schegge… Avessero avuto un centravanti di valore mondiale (uno come Altafini, o Eusebio, o Di Stefano) anziché Milani e Peirò, parleremmo probabilmente della squadra più forte di tutti i tempi; “un meccanismo perfetto”, lo definirono gli argentini, battuti due volte nell’Intercontinentale.
Era un uomo carismatico, Armando Picchi. E il carisma non si impara; o ce l’hai o non ce l’hai… Herrera lo soffriva a tal punto da metterlo ogni estate in cima alla lista dei partenti, insieme a Corso (altro caratterino): “Porque, mi fa passare da cabron”, si lamentava il Mago, nel suo idioma franco-ispanico.
“Ohè, Sciur Herrera… lassoòm staà l’Armando”, gli rispondeva Moratti, in milanese.
E anziché cederlo, gli aumentava lo stipendio.

Sarebbe diventato un grande allenatore anche in panchina, come lo era stato in campo. E infatti Boniperti e Allodi scelsero proprio lui per edificare la Juve che avrebbe dominato gli anni 70; invece morì per un tumore alle ossa, ed era il giorno della finale di Coppa delle Fiere.
“Ma ai ragazzi, diteglielo domani- fu il suo ultimo desiderio- Perché oggi hanno una partita importante, e non vorrei che pensando a me, potessero perderla.”.
Morì proprio nel giorno che al mio paese stavano piantando gli alberelli intorno al camposportivo. Ultimo ritocco prima dell’inaugurazione, con il parroco e il sindaco.

Quegli alberi, i miei compaesani li hanno tagliati l’anno scorso, perché ormai erano cresciuti un po’ troppo.
Ne hanno lasciato solo uno, scampato chissà come al furore della motosega. E mi piace pensare che lo abbiano lasciato pensando proprio ad Armando Picchi: perchè quell’albero è, adesso, come il pezzo di aereo del Grande Torino che si trova al Filadelfia; o l’orologio fermo all’ora di Monaco, che sta all’ingresso di Old Trafford.
Un pezzo di storia. Struggente, sublime e consolatorio.
Che ci ricorda che il football è anche memoria; anzi, forse la memoria è la sua parte più bella.

Riposa in pace, grande Capitano.
Oggi, avresti compiuto gli anni.

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Ma non è Donnarumma il problema dei tifosi del vecchio Milan, se non si è capito…Quello che dispiace maggiormente è invece la sensazione, a pelle, di essere diventati poveri e insignificanti.

17 sabato Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Vorremmo che i procuratori ragionassero come noi, quando siamo al bar dello sport.

Se lo facessero, smetterebbero di essere procuratori. E farebbero altri mestieri, tipo l’operaio.
Di quelli che ti dicono:”io, se fossi Agnelli, farei così, così e cosa’…”.
Dimenticando che Agnelli è Agnelli proprio per quello: perché fa l’esatto contrario del “così, così e cosa’ “, che gli suggeriamo noi.

È un mondo crudo, questo.
E gli allocchi siamo noi, che pretenderemmo sentimenti e buoni propositi in robe con tutti quegli zeri: che non entrano più nemmeno negli affari dell’aziendina a conduzione familiare, e figuriamoci se entrano in un contratto come quello di Donnarumma, che fattura quasi quanto una multinazionale.

Fa ridere il fratello, semmai. Che ci mette bocca su Facebook e alza il ditino: “voi non sapete tutta la verità…” .
La sappiamo, invece.
E sappiamo che il problema è la prospettiva, non i 5 milioni all’anno (che potrebbero persino bastare).
Lo stipendio di Cristiano Ronaldo, per esemplificare, rappresenta non più del 20% del fatturato complessivo, che sfiora i 100 milioni. Lo moltiplica per cinque grazie ai rivoli che prende il denaro con gli sponsor, le tv e i diritti d’immagine… E questo si deve al fatto che Ronaldo è il più bravo, e gioca nella squadra più famosa al mondo; e quando va in Cina trova all’aeroporto il picchetto d’onore che gli fa il “presentatarm” come a un Capo di stato.
Fosse il centrattacco di una squadra che fa sesta nel campionato italiano, non troverebbe nemmeno chi gli cede il posto sull’autobus.

Ed è questo, probabilmente, che ha finito per convincere Donnarumma, e il suo procuratore.
Più i 50-60 milioni del cartellino dei quali Raiola non si dimenticherà di certo, quando andrà a trattare con il Real, o il Bayern.

Il bacio sulla maglia, dite? E che sarà mai?
Prima o poi, la baciano tutti: una volta la bacio’ anche Okaka, alla Sampdoria: che poi si finse malato pur di farsi vendere all’Anderlecht.
Viviamo tempi mediatici, purtroppo… Tempi di esibizionismi sfrenati, dove nemmeno i calciatori sfuggono alla tentazione del social network: della “fatica di vivere da bomber” e del “pettinarsi come Pandev per rimediare la gnocca” (tutta pubblicità, e visibilità anche quella).
E dove anche la nostra domenica al mare non ha molto senso se non la si fotografa su Facebook e non ottiene almeno cinquanta “mi piace” dagli amici.
Il povero Emiro si faceva una settimana a Marina di Grosseto e il massimo che si concedeva era una cartolina al circolo Arci: ” un caro saluto a tutti i frequentatori”.
La cartolina rimaneva in bella vista per molti anni, e magari ingialliva. Fino a quando qualcuno la riprendeva in mano , distrattamente: “Toh, il vecchio Emiro… Ma non è morto tre anni fa?”.
Ma erano altri tempi, decisamente.
Mai visti Facchetti o Burgnich baciare la maglia, per esempio… E nemmeno Gigi Riva.

Ma non è Donnarumma il problema dei tifosi del vecchio Milan, se non si è capito.
Morto un Papa se ne fa sempre un altro, e figuriamoci se non si fa un nuovo portiere.
Quello che dispiace maggiormente è invece la sensazione, a pelle, di essere diventati poveri e insignificanti, come una Sampdoria o un Cagliari qualsiasi.
Dopo che quel mondo dorato si è abitato per anni , e forse con Berlusconi presidente lo si è addirittura inventato.
Con tutte le sue regole dello show-business applicate al football, ma anche le sue primissime degenerazioni: tipo lo strapagato De Napoli, per il gusto di toglierlo alla concorrenza, o l’acquisto contemporaneo di Papin, Boban, Baggio e Savicevic, per poi tenerli in panchina.

Donnarumma e Raiola sono i figlioli di quella cultura lì.
O no?

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Io ricordo nonna Erina che mi diceva sempre: “domenica ti fò i lunghetti”… I pici sono venuti dopo. E “lunghetti” continuerò a chiamarli.

16 venerdì Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Vista dal di dentro, una festa paesana è una specie di termometro.
Serve a valutare lo stato di salute di una comunità: la sua energia e il suo affiatamento. Il grado di disponibilità e di altruismo che i suoi abitanti mettono sul terreno, regalando un po’ di sé stessi al prossimo e ad una causa comune.

La prova che hanno dato i Castellini nei “Borghi in Festa”, per esempio, e i miei fratelli Petroiani nella Corrida è stata assolutamente incoraggiante. Trattandosi di paesi piccoli, i numeri sono scarsi, e i protagonisti quasi sempre gli stessi: come gli aerei di Mussolini, che impressionarono persino i nazisti… Sembravano tantissimi, e alla fine erano solo dieci, che giravano in tondo.

Pur nell’esiguità dei numeri, però, i miei compaesani sono stati capaci di riesumare la Corrida, di rimettere in moto la Società Operaia (che registra il sold out ad ogni evento), il GS, che è tornato a fare la terza categoria dopo vent’anni, e una festa de l’Unità tra le più apprezzate della zona. In più, hanno contribuito a tenere aperto il bar di piazza, che sarebbe stato disastroso chiudere.
Il loro capolavoro (secondo me) è stato quello di tenere sottotraccia le Contrade, e darle un cotè molto labile… Lo hanno fatto perché conoscono bene il paesello, evidentemente: che non ha la cultura paliesca che hanno a Montisi (o a Torrita, o a San Quirico) e rischia sempre di trasformarla in materiale infiammabile. Perché ci vuol niente a partire con un’innocua rivalità ed approdare all’inimicizia, e talvolta all’ostilità… E conseguentemente a divisioni che (per i quattro gatti che siamo) non possiamo permetterci.

E’ stata molto bella l’atmosfera che hanno saputo creare dentro al borgo, soprattutto venerdi e sabato sera; c’era una gran voglia di “assaporare” il paese, di “possedere” quasi fisicamente il suo centro storico e di recuperare il senso dello stare insieme, e respirare la stessa aria… Tutto quello che sta alla base di quel “Turismo Emozionale” che anche le istituzioni stanno assecondando, e hanno proposto al gruppo di Petroio in un convegno bello e partecipato.

Logico, poi, che molti degli ospiti che abbiamo avuto, fossero lì per i pici.
E’ abbastanza normale, in un mondo che sta facendo di sughi e soffritti una ragione esistenziale.
Non è il massimo, ve lo dico subito… Tutta questa ricerca spasmodica di panzanelle a chilometro zero comincia a stufarmi: e mi piacerebbe che si apprezzasse anche qualcos’altro, tipo un bel concerto, un’eccellente mostra di pittura o di fotografia, un buon spettacolo teatrale.
Ma è una battaglia persa, perchè la cucina è diventata ossessiva, persino in tv, con vere e proprie battaglie a colpi di carbonare e amatriciane (ne ho vista una, allo spasimo, tra il cantante Nek e l’attore che fa Montalbano).

In questo senso auspicherei che, almeno nel comune di Trequanda, i “pici” tornassero a chiamarsi “lunghetti”, come li abbiamo sempre chiamati.
Quando lo dissi a Tele Idea, per poco non mi spellano vivo… E uno mi fece un cicchetto sull’origine storica del piatto, che deriva dai pescatori di Chiana che erano poverissimi e avevano solo acqua e farina eccetera eccetera… sull’etimologia del verbo “appiciare” e sui fuorusciti senesi del 1500 che a Montalcino ci aggiunsero le uova e persino una “enne” in più (infatti li chiamano “pinci”)
Boh.
Io ricordo nonna Erina che mi diceva sempre: “domenica ti fò i lunghetti”… I pici sono venuti dopo, con l’uovo o senza.
E “lunghetti” continuerò a chiamarli.

“A la guerre comme a la guerre”.
O perdio.

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A “Orizzonti” sono grato. E lo sarò per sempre. Ci ho vissuto ore memorabili, là dentro.

16 venerdì Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Era l’unica strada percorribile.
E, per percorrerla, bisognava tornare al punto di partenza, come al Monopoli.
Stavolta, senza ritirare le ventimila lire di color marrone… Rimettendoci, semmai. Perché le “voglie cavate” costano.
Parlo del “Festival Orizzonti”, che ieri ha svelato il programma 2017.
E che mi vedrà sicuramente tra i suoi spettatori; tra gli show in cartellone, già mi prenoto per Gioele Dix, Poliziani e gli Oblivion. E forse, anche per i Kataklò.

A “Orizzonti” sono grato. E lo sarò per sempre.
Ci ho vissuto ore memorabili, là dentro.
Andò così: feci leggere il Massischermo a Chiara Lanari, che subito lo sottopose a Manfredi. Che lo valutò buono, e senza perdere tempo mi telefonò la mattina seguente: “Lo facciamo. In agosto.”
Non avevo mai sentito parlare di festival teatrali, ma l’atmosfera che vi si respirava mi coinvolse subito: lì conobbi Laura e Gabriele, Angela e Didi. Il Nenci, Mascia e tutti gli altri. Gianni e Francesco (che il MS lo recitarono) ne riscrissero interamente la versione teatrale e me ne fecero dono in sede di diritti d’autore. Senza pretendere un centesimo.
Era un Festival, quello di Manfre, che mi sembrava perfetto, anche umanamente parlando.
Non ho i titoli per valutare la qualità di un cartellone, ma ricordo uno Shakespeare colorato e brillante, un omaggio al tango e una serata dedicata alle grandi interpreti musicali francesi. Lo aprì un recital memorabile di Vincenzo Cerami, e lo chiuse Luis Bacalov, riempiendo Piazza Duomo con le note de “Il Postino”, che gli erano valse l’Oscar.

Quando fu dato il benservito a Manfre, non ci volle molto a capire che Orizzonti aveva i giorni contati. E che quell’equivoco gigantesco, gli avrebbe scavato il terreno sotto ai piedi.
Perché ingaggiando Andrea Cigni, sapevi cosa ti mettevi in casa: un raffinato intellettuale, portatore di una proposta elitaria, e fatalmente “di nicchia”. Criptica, d’avanguardia e un pò autoreferenziale: quel tanto che bastava per farne un circuito abbastanza chiuso.
Tutto il contrario di quello che invece cercava “Orizzonti”: che era visibilità, coinvolgimento e, soprattutto, gente.
E il festival di Cigni, tutto poteva portare (provocazioni, idee, contaminazioni) tranne che la gente.
Tirando in ballo paragoni ai quali nessuno ha mai creduto fino in fondo; fino ad accorgersi che, nei numeri, si stava sotto non solo al festival dei Due Mondi di Spoleto ma anche alla sagra che negli stessi giorni furoreggiava a Montallese.

Che non è una colpa da attribuire a Cigni, intendiamoci.
Anche a me, comincia a dare sui nervi questa ricerca spasmodica di sughi e intingoli nei quali pucciare il pane, e fare scarpetta… Trovo avvilente che i pici al sugo siano diventati l’unica molla in grado di alzarci dal divano nel quale stiamo sprofondando, ma la scommessa (se non si vuole chiamarlo azzardo) aveva una posta troppo alta. E perdendola, come era facile supporre, si correva il rischio di rimanere in mutande. Perché i debiti hanno un nome e cognome, e un padrone lo trovano sempre.
Si parla di un balocco costoso, insomma.
Di un lusso che un paese può permettersi a patto che il ritorno sia poderoso (di pubblico e di immagine) e i privati ci mettano del loro, contribuendo di tasca propria al budget complessivo.
E con Cigni (dispiace dirlo) non si è avuto né l’uno, né l’altro.
Insistere, sarebbe stato puro masochismo.

Orizzonti 2017, invece, mi convince.
Ci vedo il recupero di un teatro che abbia voglia di raccontare storie, anche semplici. Storie che parlano di viaggi e di avventure, di provincia e di città, di amore e di morte. Di Dio, di politica e anche di eventi sportivi; roba che, comunque, sappia emozionarti e talvolta persino farti ridere.
Perché tra il Cinepanettone e il film afghano che dura sei ore, si diceva con Manfredi, ci dovrà pur essere una via di mezzo.
Ma la ricerca di quell’equilibrio, leggero e funzionale, fu evidentemente scambiato per una deriva minimalista. Un volare basso che non si addiceva al gusto degli esigenti loggionisti della Scala che eravamo diventati.

E’ una marcia indietro, questa.
Ma era l’unica strada percorribile.

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Quando eravamo un paese, c’era un sacco di lavoro. E non c’era bisogno del turismo. Adesso che il lavoro scarseggia, vorremmo il turismo. Ma non abbiamo più il paese.

12 lunedì Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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I convegni sono, talvolta, di una noia terrificante.
Quello organizzato sabato mattina da Roberto, e dal Comune di Trequanda, ha fatto eccezione. Anche se è durato molto, e alla fine faceva un caldo da sceicchi.

Si è parlato di “turismo emozionale”; e di “albergo diffuso”, che di questo turismo emozionale pare essere l’applicazione più immediata e concreta.
Ho sorriso, mentre gli ottimi relatori usavano, più o meno, le stesse parole e gli identici concetti che adoperammo con il mio amico Diego Mancuso alcuni anni fa, durante una trasmissione sul Bravio.
Non si sapeva ancora niente del “turismo emozionale”, ma il concetto era quello: ovvero, la ricerca (da parte del turista) non solo e non tanto dell’affresco del Trecento, o del Palazzo Rinascimentale.
Bensì di un’immersione “sensoriale”. Con la gente, e tra la gente…. Una nuova frontiera, che potrebbe risultare importante anche in termini di occupazione e sviluppo.
Ma non ho potuto esimermi dal fare questa piccola riflessione: quando eravamo un paese, c’era un sacco di lavoro. E non c’era bisogno del turismo.
Adesso che il lavoro scarseggia, vorremmo il turismo.
Ma non abbiamo più il paese.

O, almeno, il paese come lo intendono quelli del “turismo emozionale”, e tutti i potenziali visitatori che considerano la Toscana il luogo più desiderabile del mondo: per cipressi e colline, per il cibo e per tutte quelle cose che potremmo riassumere nel cosiddetto “Tuscany way of life”.
Cerco di interpretarne il senso, e quello che mi viene in mente è un posto dove ci si conosce tutti e la sera si va in piazza. Dove si mangia ribollita, si beve buon vino e c’è sempre un vecchietto che siede capotavola. Soprattutto, dove si ha un concetto abbastanza rispettoso del prossimo, e di tutto quello che gira intorno. E si sta volentieri insieme.
Dove per la via si saluta l’oste e il fabbro, sempre sorridenti. Il fornaio con i baffi e persino gente che non si vede più da decenni, come il ciabattino, o lo spazzacamino.
Una via di mezzo tra Hansel e Gretel, con le casette in marzapane, il villaggio degli Hobbit e certe atmosfere dei film di Pieraccioni.

Ora, se qualcuno ha davvero questa idea di “Tuscany way of life”, temo vada irrimediabilmente fuori giri. Al di là di quanto “emozionale” possa essere il turismo.
Perché oltre questa iconografia molto suggestiva (che fa il pari con la “’oha’ola’onla’annuccia’orta”, mai sentito pronunciare da nessuno), si evince piuttosto come il mondo abbia massificato anche noi, in quel senso… E si rischia di offrire, più che un ”emozione”, un suo surrogato fatto di cartapesta, come le scenografie di Ben Hur.
Perché anche nel “Tuscany way of life”, in piazza si va sempre più di rado e i ciabattini non esistono più. E si ha con il prossimo un rapporto più diffidenza che amicizia. Che sfocia talvolta in invidia, prevaricazione, aperta ostilità.
E che anche qui, come ovunque, si guarda ormai un sacco di televisione e non si alzano più gli occhi dallo smartphone. Si mangiano prodotti surgelati, si fa la fila al supermercato, siamo incazzosi, indaffarati, ipertesi e non vediamo l’ora di arrivare a sera per sdraiarci sul divano.

I ragazzi che hanno partecipato al convegno di sabato, però, erano positivi. E di questo ne sono contento.
E dico, addirittura, che se questa nuova frontiera riuscisse a farci recuperare, anche solo in parte, un pezzettino di quel vivere che tanto ci rendeva unici, beh… Quello si che sarebbe “turismo emozionale”.
E capire che la qualità di un paesaggio è la sua gente, e non solo tramonti mozzafiato e cipressi solitari.

Anche solo ripartire da lì, sarebbe una gran bella vittoria.

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La mancata tragedia di Torino, sabato scorso, mi ha fatto riflettere. Sull’importanza delle parole, anche.

08 giovedì Giu 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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La mancata tragedia di Torino, sabato scorso, mi ha fatto riflettere.
Sull’importanza delle parole, anche.

E soprattutto sulla parola “ignoranza”, che sui social pare andare molto di moda, adesso.
Per quello che ho capito, la parola si applica in maniera vezzosa, e spesso addirittura elogiativa. Ad un cantante, un calciatore o a chiunque assuma atteggiamenti ridicoli, spesso imbarazzanti (talvolta persino violenti), purchè ottengano la curiosità del web.
L’atteggiamento dell “ignorante”, in soldoni, si può riassumere così: un’indifferenza abbastanza evidente e il più totale menefreghismo verso le regole, e il prossimo che ti sta accanto.

Tempo fa, questi erano gli atteggiamenti degli ultimi della fila.
Quelli che non riuscivano in niente, e pur di ottenere il loro minuto di notorietà si specializzavano in qualcosa di particolare: il rutto più lungo, per esempio. O la bestemmia più articolata… Avevo un amico che imitava perfettamente il rumore di una Vespa 50 truccata.
Era un portento.
Però, non sapeva fare altro.

Oggi, anche lui sarebbe un “ignorante”, e chissà quanti mipiace raccoglierebbe su Facebook, con quelle prodezze.
Perché le parole sono evidentemente poco importanti: come quel delinquente (e sottolineo delinquente) che butta un petardo in una piazza gremita e ne manda duecento all’ospedale.
E può tranquillamente passare per “ignorante”, che è una roba da scappellotto e da pacca sulla spalla, alla fine… Quasi da raccontare al Pub, tra gli amici, dopo la settima birra della serata.
O come quel giovane che un bel giorno ammazzò entrambi i genitori e poi, nel memoriale di difesa, si disse pentito per aver commesso “una cazzata”.
Fortuna che il giudice, in quel caso, non si lasciò incantare, e fece capire in sede di giudizio la sottile differenza tra una “cazzata” e lo scannare il babbo e la mamma. E comminò l’ergastolo.

Le parole sono importanti, dicevo.
Io ho visto gente elevare a stile di vita l’eleganza, e la classe. Cercare di educare il gusto, e la raffinatezza. Cose che, messe tutte in fila, componevano un bagaglio di charme a volte irresistibile; e facevano diventare interessante, con quell’uomo o quella donna, qualsiasi tipo di conversazione o frequentazione.
L’ignoranza, invece, non l’ho mai trovata attraente.
E tantomeno la sciatteria… Ammetto di perdermi qualcosa, ma forse è un mio difetto.
Che poi, intendiamoci, non sarebbe il mondo ideale nemmeno quello. Magari, addirittura di una noia mortale: tutti bellini, profumati, colti ed educati ad Oxford… E quindi varrebbe la pena, talvolta, aprire un credito anche all’irruenza, se non alla prepotenza.
Alla prepotenza, dico.
Ma non alla cretineria.

Rimango stupito che ancora non abbiano beccato quel ( o quei) delinquente di sabato sera. Non dovrebbe essere difficile, in fondo.
Quando succederà, auspico una pena “ignorante”.
Che non è la galera, per carità… Dove uno entra “ignorante” e finisce per uscire assassino.
Semmai, qualcosa di più faticoso, e sporco. Un lavoraccio, magari. Con colleghi antipatici, padroni cattivi e che la sera si torna a casa stanchi e avviliti. E quando la mattina (presto) suona la sveglia, si ricomincia daccapo. All’infinito.

Che poi è quello che fanno quotidianamente milioni di persone. E lo fanno proprio per elevare se stessi, e la propria famiglia, dall “ignoranza”.

Pensa te.

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