Riccardo Lorenzetti Blog

~ Per fortuna che c'e' il Riccardo

Riccardo Lorenzetti Blog

Archivi Mensili: luglio 2017

Da uno che nasce la notte dell’11 luglio 1982, era lecito aspettarsi qualcosa di più. E di meglio.

25 martedì Lug 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Ci sono calciatori che smettono di giocare, e dei quali non avvertirò la mancanza.

Sono quei calciatori, tanto per cominciare, che scelgono la maglia numero 99.
Perché (belle motivazioni a parte) il football ha una sua sacralità da rispettare: e una sua simbologia, che non è la stessa del motociclismo o dell’Nba di basket.
O anche quelli che festeggiano un bel gol dando un calcio alla bandierina, e spezzandola (“ora chi la ripaga? Tuo babbo?” ci dicevano da piccoli); e quelli che mandano affanculo un allenatore al momento della sostituzione.

Non mi piacciono i calciatori che arrivano agli allenamenti con il macchinone dai vetri oscurati, ed hanno il parcheggio privato dentro gli spogliatoi, mentre Maggio e Franceschini attraversano a piedi tutto il piazzale e si fanno anche le foto con i tifosi.
Non mi piace il difetto che viene fatto passare per un pregio, o quando la maleducazione viene scambiata per genuinità… Non mi piace la mancanza di rispetto verso l’Under 21: e i giornalisti compiacenti che fanno le bucce a un “certo” Claudio Gentile, se ti sbatte fuori squadra.

Non mi piacciono i calciatori che si fanno scrivere le autobiografie da qualcun altro. Per celebrare carriere molto fumo e poco arrosto dove gli episodi più salienti sono un paio di amplessi con la soubrette di turno o qualche notte brava prima di una gara importante. E naturalmente i tanti miliardi guadagnati, e spiattellati in faccia al lettore come simbolo di riscatto.

Non mi piacciono i calciatori che un giorno ti prende in considerazione il Real Madrid, e debbono metterti fuori squadra dalla disperazione perché hai messo su venticinque chili di sovrappeso.
Non mi piacciono perché conosco tanti ragazzi che fanno la Promozione o la prima categoria: che hanno un senso quasi sacrale del gioco, e onorano con la loro serietà, e il loro puntiglio, un pubblico composto da poche decine di persone.

Non mi piacciono i calciatori che sputano nel ricco piatto dove mangiano. Dove per piatto si intende la gente che paga il biglietto dello stadio o l’abbonamento alla pay-tv. E il giorno che ti invitano ad un rinfresco, dici che possono tranquillamente andarsene tutti affanculo. Loro, e quel Presidente “vecchio di merda”, che sollecita la tua presenza.
E d’altronde non mi piacciono nemmeno quelle Società che si piegano al ricatto di qualche tifoso, e dopo tre anni fanno finta di niente: e ti regalano un’altra carriolata di denaro, anche se sei palesemente a fine corsa.

Non mi piacciono le cinque giornate di squalifica dopo un obbrobrioso Samp-Torino, il rigore decisivo della finale di Coppa Italia con la Lazio e la sostituzione all’89 con il Werder Brema, in un preliminare Champions che non giocheremo mai più in tutta la nostra vita.
Non mi piacciono quelli che vengono da Bari Vecchia e qualsiasi comportamento è giustificato, perché vengono da Bari Vecchia.
Quando, invece, venire da Bari Vecchia dovrebbe essere il tuo orgoglio e la tua forza. Come lo fu Castellania, per Fausto Coppi. O Louisville, per Cassius Clay.

Non mi piacciono le favole che finiscono all’incontrario: quando ti ritrovi a fare il tifo per la balena anziché per Pinocchio: o quando Peter Pan ti fa venir voglia di parteggiare per Capitan Uncino… Ma è pur vero che ognuno fa della sua vita ciò che vuole; ed ha, alla fine, il sacrosanto diritto di dichiararsene contento e soddisfatto.

Dico però, da innamorato del football, che da uno che nasce la notte dell’11 luglio 1982, era lecito aspettarsi qualcosa di più.

E di meglio.

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Ma basta teatrini. E per il prossimo che dichiara “me ne vado, è colpa della Società”, esigo una rappresaglia esemplare.

24 lunedì Lug 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Se in Cina sbarca il Real Madrid, li riceve il Presidente della Repubblica in persona, con il picchetto d’onore e il “presentatarm”.
Se arriva l’Inter, si parla di alcune centinaia di tifosi che cantano a squarciagola “Milano siamo noi” (effetto comico dirompente).
Se arrivano, mettiamo, la Fiorentina, la Lazio o la Sampdoria (ammesso che qualcuno le inviti), non se ne accorge nessuno… E forse gli fanno trovare persino l’aereoporto chiuso.

Così va il mondo, e questa è la realtà, che ci piaccia o no.
E quando si capisce, perdono interesse tutti i teatrini dei Bernardeschi, Borja Valero, Kalinic e compagnia bella; le lacrime dal balcone, le dichiarazioni d’amore, i “vorrei-ma-non-posso” e i baci sullo stemma.

Il giochino l’abbiamo capito; è la regola sempiterna dell’elettricista (o del meccanico, o dell’imbianchino) che viene assunto come apprendista da una qualsiasi ditta. Che gli paga i primi contributi, gli insegna il mestiere, e poi se lo vede scippare dall’azienda più grande, che mette cento euro in più in busta paga.
Niente di strano, e nemmeno di scandaloso.
La riconoscenza, gli obblighi morali, le questioni di principio ne vedete molti, in giro?
Io no, nemmeno nella vita di tutti i giorni… E se una regola vale per l’uomo della strada, figuriamoci se non debba valere nel calcio, che più di tutti ha fatto dei quattrini l’unico valore universale.
E’ un mondo competitivo, ormai. Quindi, se arriva qualcuno che mette sul piatto soldi e carriera, non approfittarne equivarrebbe a passare da bischero. E i primi a fartelo capire sarebbero magari quelli che in piazza ti gridano “traditore”… Avessero un figlio prete, e dovendo scegliere tra il Vaticano e una parrocchia di paese, saprebbero loro cosa suggerirgli.

Va di moda, adesso più che mai, addossare tutte le colpe ai Club. Specialmente da quando i presidenti non hanno più voglia di emulare Gazzoni o Sensi (che ci hanno rimesso un bel po’) e sono i capri espiatori più a buon mercato.
Della Valle, Lotito, Preziosi e così via.
Con effetti comici e, talvolta, nauseanti. Tipo il Borja Valero, per esempio: che visto da fuori ha rappresentato per anni (lui spagnolo) la quintessenza della Firenze che tutti amiamo, con tutti quei selfie sorridenti sul Ponte Vecchio o da Piazzale Michelangelo.
Finchè, a 32 anni, è arrivata l’offerta irrinunciabile (che anche lui pensava di non ricevere più), e la pantomima che ne è seguita è stata addirittura avvilente: la sua dichiarazione di ieri “all’Inter si, ma alla Juve vi garantisco che non sarei mai andato” fa ridere. Se l’ha fatta (come credo) per ingraziarsi i tifosi viola, deve avere una bassissima opinione della loro intelligenza.

Che, comunque, non si preoccupino.
Se il Borja Valero, il Vecino o il Bernardeschi sono quelli che hanno visto quest’anno, perdono poco.
Fossero rimasti, avrebbero chiesto emolumenti, adeguamenti e bonus che il loro rendimento non avrebbe giustificato e che la Fiorentina non avrebbe potuto permettersi.
E poi, se si deve arrivare ottavi e fare quel popò di figura con i Tedeschi, beh… Tanto vale spendere di meno.

Non si gioca per la maglia, insomma. Né per la città, né per i tifosi che ti offrono il caffè al Bar Marisa… Forse, non si è mai giocato: e anche Maldini, o Del Piero, il loro essere bandiere se lo facevano pagare pronta cassa, e profumatamente.

Ma basta teatrini.
E per il prossimo che dichiara “me ne vado, è colpa della Società”, esigo una rappresaglia esemplare.

Tipo suonargli il campanello di notte.
O scrivergli “asino” nel lunotto polveroso dell’auto.

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E’ una storia che andrebbe raccontata a qualche “campioncino” di adesso. Quella dello sportivo che aspetta paziente in cima al paracarro.

19 mercoledì Lug 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Aveva ragione Paolo Conte.
Tra una birra e un mazzo di rose, meglio la birra.

Specialmente in questi giorni appiccicosi.
Di caldo, più che di caucciù (che però serviva per la metrica).
Di giornate lunghe e di nuvole in lontananza. Di serate in cerca di brezza e di pomeriggi con il Tour de France, che più lo guardi e più provi invidia. Per la France, dico.
Che ti sembra il posto più bello, più civile e più ordinato del mondo. E forse il Tour lo organizzano proprio per quello: effetto depliant.

E così si finisce per pensare a Bartali, che oggi festeggerebbe il compleanno.
A Bartali, a Coppi e a tutti quei campioni che seppero ribaltare l’equazione (fin troppo facile, in quei momenti lì) dell’italianuzzo buono a nulla. Meschino, infido e traditore.
Un clichè sempre di moda, da quelle parti. Come constatavano le migliaia di poveretti che dovevano andarci a lavorare: nelle loro fabbriche, nei loro cantieri o nelle loro miniere… E qualcuno nemmeno tornò a casa.

Bartali servì anche a questo.
A rialzare la testa.
Insieme a Consolini, Tosi e agli altri azzurri che a Londra 48 fecero quinti assoluti nel medagliere. A Coppi, a Magni e al Grande Torino, che fu la squadra più bella di tutti i tempi.
E poterlo urlare in faccia a quei Francesi lì, che ci chiamavano “macaronì”. E pensavano di aver vinto la guerra, mentre in realtà l’avevano persa.
Come noi.

Valeva la pena star li fino al tramonto seduti su un paracarro, per aspettare Gino Bartali; come recita quella canzonetta; che alla fine parla di tutti noi, più che del grande campione.
E rivendica la nostra centralità, senza la quale non esisterebbero né Bartali né Coppi. Né Bonucci, né Donnarumma e nemmeno i milioni che guadagnano, più o meno meritatamente.

Ma capisco che paragonare un Bartali a qualsiasi campione di adesso, si rischia come minimo il ridicolo.
E non solo per un fatto economico, perché i quattrini sono sempre girati (almeno nello sport), e di campioni spiantati, non ne abbiamo mai conosciuti.
Nemmeno Coppi e Bartali correvano gratis. Ed erano ricchi (per gli standard dell’epoca) anche Bottecchia, Binda e Girardengo. E quei fenomenali velocisti che compravano e vendevano corse nelle sei giorni su pista, allora popolarissime. Era ricco Meazza, che possedeva l’automobile in tempi dove anche la bicicletta era un lusso per pochi.

Però, c’era un senso delle cose (e degli uomini) che oggi i campioni hanno perso.
C’era una “normalità” sublime in Bartali (al di là dell’eroismo con gli Ebrei).
E anche in Coppi; che quando venne a correre a Foiano vide tra la folla il povero Dino Benvenuti, che era mio compaesano. E quando finì la corsa, volle a tutti i costi andare a salutarlo. Per offrirgli un bicchiere di vino e ricordare gli anni trascorsi insieme a Blida, in Tunisia. Prigionieri di guerra degli Inglesi.

Era un semidio, Bartali. Come Coppi. E guadagnavano soldoni.
Ma non gli sfuggiva un ragionamento semplice: e cioè, che senza tutta quella gente seduta in cima al paracarro, non sarebbero esistiti. Né loro, né la fama, né i quattrini che ne derivavano.
E di quella gente, riuscivano a penetrare l’umiltà e la semplicità. Propria dei contadini, dei garzoni e dei mezzadri che anche loro erano stati: della miseria nella quale anche le loro famiglie avevano vissuto, e che non dimenticavano.
Nemmeno da milionari.

E’ una storia che andrebbe raccontata a qualche “campioncino” di adesso. E a qualche procuratore, magari.
Quella dello sportivo che aspetta paziente in cima al paracarro.
E aspetterà sempre.

Purchè ne valga la pena.

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Una specie di manifesto generazionale che il carisma di Bono rendeva inconfondibile, insieme al riff di quel fantastico chitarrista stempiato che si faceva chiamare “The Edge”

18 martedì Lug 2017

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“The Joshua Tree” fu effettivamente un disco “epocale”.

Lo fu in anni che adesso ci sembrano lontanissimi, quando quegli oggetti neri e rotondi avevano un senso persino estetico. E comprarli dava un gusto pazzesco, anche dal punto di vista tattile… Ne apprezzavamo l’eleganza dell’astuccio, la qualità della grafica e anche quanto fosse evocativa la copertina.
Ne facevamo di bellissime i Pink Floyd, per esempio. Ma anche gli Iron Maiden, che suonavano (e forse suonano ancora) quel rock duro e virile che chiamavano “ heavy metal”.

La musica era molto importante, per i ventenni che eravamo. Allocchi, come tutti i ventenni che si rispettino.
Si può dire che fosse, insieme al calcio, alle ragazze e a qualche buon libro, la nostra occupazione principale.
Forse, persino più di quanto non lo sia per i ventenni di adesso che (detto senza nessuna velleità di reducismo) sono abituati ad un altro genere di proposta, e non hanno alle spalle il decennio fine’70-inizi’80. Dove è condensata, secondo il parere autorevole di molti esperti, una produzione musicale tra le più ricche e significative di tutti i tempi.

“The Joshua Tree” uscì nel 1987: fu un gran bel disco e, al tempo stesso, una piccola delusione.
Fu la sensazione agrodolce di un fuoco che si spegne (termine quanto mai inopportuno, di questi tempi). Di una scintilla che si affievolisce, incapace di sprigionare quell’energia selvaggia della quale furono capaci i primissimi U2: quelli che urlavano cose che sapevano di rabbia e di libertà. Di lotta e di rivoluzione…Tutto oro colato per i ventenni un po’ fregnoni che eravamo (e d’altronde se non si è fregnoni, che ventenni saremmo?).

Perchè non c’era bisogno di sapere l’inglese per capire cosa volessero dire con “I Will Follow”, “Gloria”, “New year’s Day” o “Sunday Bloody Sunday”. Erano pezzi che si ascoltavano e stop: bastavano a se stessi. Una specie di manifesto generazionale che il carisma di Bono rendeva inconfondibile, insieme al riff di quel fantastico chitarrista stempiato che si faceva chiamare “The Edge”.
Rimanemmo folgorati sulla via di Dublino da “The Unforgettable Fire” (1984), probabilmente, uno dei primi tre album del decennio, se non il primo in assoluto…. Aveva la copertina cremisi e conteneva “Pride”, “A sort of homecoming”, “Mlk” e tante alre cosette del genere.
Ce ne innamorammo perdutamente.
Come capita a vent’anni.

L’uscita di “The Joshua Tree” ci trovò,quindi,allupati.
E quel disco, effettivamente, rispose alle attese. Perché era notevolissimo: “Quando su dieci canzoni ce ne sono cinque-sei che passano alla storia, si può parlare di capolavoro”, disse Nicola, che era il nostro capotribu musicale.
E lì dentro, c’era tanta roba: a cominciare da “With or without you”, “When the streets…” eccetera. Ma l’impressione, ricordo, fu agrodolce: rispetto al 1984, un piccolo passo indietro. Al massimo, un consolidamento delle posizioni.
In attesa della ritirata.

Infatti arrivò “Rattle and Hum”, che comprai sulla fiducia. Poi, “Achtung Baby” ,“Zooropa” e tutto il resto. Che (per quanto mi riguarda) rimasero sugli scaffali.
Album fantastici, dice chi se ne intende. Con alcuni pezzi capolavoro destinati a fare epoca (uno per tutti, “One”), ma lontani anniluce dagli U2 che mi avevano fulminato dieci anni prima.

Lasciandomi nel dubbio se fossero cambiati loro.

O se, nel frattempo, non fossimo cambiati noi.

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Era il 5 luglio dell’82. Stadio Sarria di Barcellona. Sono passati trentacinque anni, ma noi siamo ancora tutti lì. Non ci siamo mai mossi. E lì, probabilmente, rimarremo per sempre.

05 mercoledì Lug 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Avevamo sedici anni.
E quando finiva la scuola, in estate ci mandavano anche a lavorare.
Giusto un paio di mesi; in fabbrica, in officina o in cantiere.

Oggi, non sarebbe più possibile. Norme per la sicurezza a parte, non c’è più lavoro nemmeno per chi lo fa di mestiere…Figuriamoci per gli studentelli che debbono riempire la giornata.

Ma allora era così.
Nemmeno per i soldi, che erano giusto due lire. Quanto perché i nostri genitori avevano del lavoro un concetto alto, e per niente umiliante.
E ce lo facevano assaggiare come una prima, rudimentale lezione di vita: che valore aveva il sudore, e che senza sacrificio non si ottiene niente… Nemmeno quei piccoli radioregistratori Grundig che andavano tanto di moda.
E anche perché (nella morale asciutta di quegli anni) vedere un ragazzo bighellonare per il paese tutto il giorno era una roba inconcepibile.
“Nemmeno per chi ti vede” e “Ti fa di vergogna” erano le frasi più gettonate.

Italia Brasile cominciò alle cinque e un quarto.
E quel pomeriggio, nessuno di noi ragazzi volle andare a lavorare; persino molti operai delle terrecotte anticiparono l’entrata alle cinque del mattino, per tenersi liberi dall’ora di pranzo. E scegliere con comodità il posto migliore dove vedere la partita.
Alle tre,infatti, il nostro Circolo Acli era già pieno zeppo.
Si sentiva nell’aria un profumo strano, ma inconfondibile. Come se quella smandrippata Italia di Bearzot, partita tra gli sberleffi, fosse pronta per l’impresa memorabile.

Sono quei momenti che rimangono, e ti restano appiccicati addosso.
Così, di quel pomeriggio ho finito per ricordarmi tutto, anche se sono passati ormai trentacinque anni.
E potrei dirvi che ero seduto nella terza fila di sedie, accanto a Cesare, a Roberto e a Donato. Che la finestra era socchiusa, e lì vicino c’erano il Papino e Rodolfo. E poi il Marocchino e Passerotto. Pierino, Tito e il Maestro Novaro… E potrei raccontarvi nel dettaglio i silenzi, le urla e i sospiri.
Ferruccio con le mani nei capelli mentre la tv inquadra il faccione stravolto di Falcao che esulta dopo il 2-2.
Il delirio completo al terzo gol di Rossi; il grande Eder che dà un calcio ai cartelloni pubblicitari per battere il calcio d’angolo; e su quello, il colpo di testa di Oscar che vale a Dino Zoff la celeberrima parata sulla linea di porta.
La più bella parata della storia del calcio.

E che quando la partita finì, fu come riemergere da un pozzo nero di miniera.
Non ci fu nemmeno il tempo di rendersene conto, inebetiti come eravamo.
Che arrivò Fulvio, con l’Alfasud, e i più svelti fummo io, Danilo e Brezzino. E si fece un corteo di bandiere e clacson fino a Sinalunga che sembrava il matrimonio di un cantante famoso… All’arco di Trequanda (quello sopra le scuole) ricordo un tale che si sporgeva dal tettino di una 500, e per poco non si sfracella.

Era il 5 luglio dell’82.
Stadio Sarria di Barcellona.
Sono passati trentacinque anni, ma noi siamo ancora tutti lì.
Non ci siamo mai mossi.

E lì, probabilmente, rimarremo per sempre.

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Invece, le regole ci sono. E ferree, anche. Ma nessuno le hai né scritte né codificate. Perché non ce n’è mai stato bisogno. Sono regole che si osservano e basta. Che hai dentro di te, appartengono al profondo della tua coscienza.

04 martedì Lug 2017

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Sono un appassionato di Palio. Sempre stato. Non sono Senese, quello no. Se per Senese si intende uno che “è nato nelle lastre”. Ma il Palio è il Palio, e guai a chi me lo tocca.

Negli anni vi ho accompagnato tanti cari amici che, contagiati dal mio entusiasmo, hanno voluto vederlo. E non tanto e non solo la corsa (la “carriera”), bensì per tutto il contorno: l’atmosfera della contrada, per quanto mi è possibile: la “tratta”, la cena della prova generale, i costumi, i colori, i canti, la ritualità della festa.
Vi ho accompagnato Napoletani e Romani. Milanesi e Veneziani. Persino alcuni amici tedeschi, abbastanza sbalorditi. A qualcuno di loro è piaciuto da matti, a qualcuno meno.  Ma a nessuno è rimasto indifferente.
“Sono entrato in una specie di bellissima, affascinante macchina del tempo”, è quasi sempre il loro commento finale.

Il Palio di ieri è stato meraviglioso, come succede quasi sempre. Una corsa pazzesca e selvaggia. Libera, sublime e innocua, dove alla fine non si è fatto male nessuno. Come succede quasi sempre.

Per chi non è né Senese né contradaiolo, il fatto che abbia vinto la Torre piuttosto che l’Onda o la Selva fa poca differenza: è un particolare che sfuma nel delirio dei suoni e dei colori che Siena ti offre generosamente e dove ti immergi fin dentro il collo.
E infatti il Palio (e Siena) danno sempre quest’impressione, al visitatore più attento: un mondo lontanissimo, dove il tempo fluisce in maniera diversa e viene cadenzato con ritmi originali rispetto al resto del pianeta.
Non troverete una città uguale a questa. E nemmeno una festa che possa eguagliarla in pathos e in emozione.

Gli sciocchi, invece, vedono il Palio e per prima cosa pensano che si tratti di una competizione violenta, incontrollata e senza regole.
Invece, le regole ci sono. E ferree, anche. Ma nessuno le hai né scritte né codificate. Perché non ce n’è mai stato bisogno. Sono regole che si osservano e basta. Che hai dentro di te, appartengono al profondo della tua coscienza. Perché ci nasci dentro, e vivi come se ti fossero appiccicate addosso.
Sono regole di vita, più che di Palio. Chiamano in causa l’onore e il rispetto. la generosità e l’amicizia. Il valore, e il mutuo soccorso che dovrebbe esistere tra gli uomini. Ti insegnano, soprattutto, l’amore per la tua terra e per il tuo popolo.
E che per la tua terra e per il tuo popolo, devi essere anche disposto a batterti.
Ti insegnano che non si scappa, di fronte al pericolo. Ma anche che non si combatte, quando siamo in venti contro uno.
E soprattutto che non si colpisce l’avversario, quando esso è caduto a terra.

Questo è il Palio. Da secoli.
Chi continua a pensare che sia solo cavalli che cadono, forse non l’ha nemmeno mai visto.

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Le ingiustizie, il servilismo e le ipocrisie di tutti i giorni sbattute in faccia: questa, in soldoni, la filosofia spicciola di una “saga” nata quaranta anni fa.

03 lunedì Lug 2017

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Uno come Fantozzi, o lo detestavi o lo amavi alla follia.
Impossibile una via di mezzo.

Troppo “caratterizzante” il personaggio. E troppo forte l’identificazione che dallo schermo si riversava sullo spettatore.
Le ingiustizie, il servilismo e le ipocrisie di tutti i giorni sbattute in faccia; la signorina Silvani e il ragionier Filini, il Megadirettore Galattico e il “Batti lei, congiuntivo”… la corazzata Potemkin e la Coppa Cobram.
In una parola, la monotonia (e la frustrazione) del quotidiano, e il riscatto; sempre sognato e mai ottenuto, se non in rari momenti “eroici”.
Perché nella vita c’è chi ha “classe”.
Mentre quelli come Fantozzi, qualche rara volta, possono avere “culo”. Ma non evolvono mai dal loro status di “coglionazzi”.

Questa, in soldoni, la filosofia spicciola di una “saga” nata quaranta anni fa: infarcita di momenti surreali e grotteschi, eppure indimenticabili, che ne fanno uno dei prodotti più importanti del cinema italiano, checché se ne dica. Quelli immediatamente riconoscibili perché entrano nel lessico di tutti i giorni, come succede a pochissimi… Giusto a Totò, e qualcun altro.

Ricordo “Il Secondo Tragico Fantozzi” (1976), sull’onda del successo travolgente del primo (1975).
E ricordo la fila interminabile al SuperCinema di Bettolle (che non esiste più) e le proiezioni non-stop per soddisfare la richiesta “mostruosa” di tutti quelli che non riuscivano ad entrare, dalla gente che c’era. Un fenomeno cinematografico che è continuato negli anni, anche nelle repliche televisive che continuano a mietere ascolti come se nulla fosse.

Ma proprio questa, che è stata la sua forza, è paradossalmente diventata anche la sua “debolezza”.
Perché se, putacaso, Fantozzi fosse “morto” dopo i primi due film, allora si che sarebbe stato un capolavoro… Aver perpetuato la saga all’infinito, con sequel di una bruttezza a volte raccapricciante, ha finito per deturparlo, o quasi.
E quel rosario di salivazioni azzerate, lingue felpate e “com’è umano lei” ripetuti all’infinito, gli ha tolto efficacia. Anzi, lo ha svilito in una deriva cialtrona da cinepanettone che le geniali intuizioni dell’esordio non meritavano.

Ma anche le case cinematografia, alla fine, hanno fame di denaro.
Stanno lì per quello: per produrre utili, e non per passare alla storia… E il Paolo Villaggio che ci hanno raccontato, non era uno che andasse tanto per il sottile, specialmente quando si parlava di quattrini e di successo; e al peggior Fantozzi doveva addirittura somigliare molto, anche nella vita di tutti i giorni.

Mortificato, ammesso gli fosse importato qualcosa, da quel personaggio gigantesco e onnipresente che gli aveva “cannibalizzato” la carriera, finendo per mortificare il suo essere attore (e attore bravo, tra l’altro). Capace di performance teatrali non da poco, o da interpretazioni favolose tipo il “Sor Dieci” di “Cari Fottutissimi Amici”, uno dei film italiani più belli di sempre.
O come quando Fellini lo volle ne “La Voce della Luna”, insieme a Benigni: “Ohè, c’è anche Fantozzi… Chissà che risate…”.
Ma quel film tutto era, tranne che un film comico.
E il pubblico, che si aspettava Peroni gelate e rutti liberi, ne rimase deluso.

E’ morto solo, infelice e dimenticato. Abbastanza normale, per uno che nell’ambiente si era fatto amare pochissimo.
“Perché non era un ipocrita”, ha detto qualcuno. E forse, è vero anche quello.
Io mi ricordo di quando lo coinvolsero nei festeggiamenti dello scudetto della Samp, nel 91; Galeazzi lo intervistò in un tripudio di bandiere blucerchiate, e lui se ne uscì così: “Oggi sono propenso persino a credere che Dio esista….”. E poi, con un filo di voce, sussurrò: “…Purtroppo”.

E in quel bellissimo “purtroppo”, c’era tutto il Paolo Villaggio che preferivo.

Ti sia lieve la terra.

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