Riccardo Lorenzetti Blog

~ Per fortuna che c'e' il Riccardo

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Archivi Mensili: marzo 2018

Ha combattuto la sua battaglia, il “Mondo”. Da guerriero quale era, ben sapendo che l’avversario, stavolta, era molto più forte anche del fenomenale Ajax del 1993

29 giovedì Mar 2018

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Figlio di oste.
Cresciuto dentro ad un’osteria. A Rivolta d’Adda, provincia di Bergamo

Che doveva essere uno di quei posti dove il consumo di vini e grappe assomigliava a quello di un raduno della Julia, o della Tridentina. E dove, se non parlavi il dialetto stretto, non ti facevano nemmeno entrare.
Fu per questo che un bel giorno Emiliano Mondonico si trovò a brandire la famosa sedia in aria: “perchè all’osteria non esistevano nè coltelli, nè fucili… La sedia era l’oggetto più contundente a portata di mano, e soprattutto il segnale che si era arrabbiati sul serio”.

Ma la sedia in aria, non bastò.
E il suo Toro, quella finale la perse ugualmente; come era scritto nelle stelle, e nel destino di quel meraviglioso Club che forse non a caso scelse per le sue maglie il colore del sangue, come la bandiera di guerra della Brigata Savoia.
La traversa all’ultimo minuto (di Sordo, mi sembra, ma potrei sbagliare) fu nient’altro che l’inesorabile schiaffo della sorte: che a certa gente, evidentemente, non si nega mai.

Difficile non voler bene al “Mondo”.
Che aveva la vocina stridula e una carica di umanità per la quale veniva naturale di parteggiare, al di là della squadra che allenava… Un Nereo Rocco in versione moderna e leggermente più raffinata: e che (a differenza del “Paron”) era passato anche per il sessantotto, e un pomeriggio aveva simulato un infortunio al ginocchio pur di non perdersi il concerto dei Rolling Stones.

Gli piaceva essere un uomo “contro”, e la tribù del calcio gli ha voluto bene anche per questo… Perchè ci ha saputo vedere un uomo semplice e perbene, e non un venditore di fumo; un uomo più da trincea che da grandi palcoscenici, più a suo agio con gli scarponi che con l’abito da sera.
“Quando da ragazzo andavo al cinema -diceva- mi veniva naturale parteggiare per gli indiani, e mai per i cowboys”…
E non è un caso che il “Mondo” sia diventato una specie di leggenda proprio per le tifoserie più “speciali”: Quelle più sanguigne e dotate di una forte identità, tipo l’Atalanta e la Fiorentina (della quale era anche tifoso).
E, per l’appunto, il Toro. Che l’identità ce l’ha più forte di tutte.

Mi piace pensare che se ne sia andato con il sorriso sulle labbra.
Per quanti sforzi faccia, certa gente non riesco a immaginarmela imbronciata, o incattivita.
Ha combattuto la sua battaglia, il “Mondo”.
Da guerriero quale era, ben sapendo che l’avversario, stavolta, era molto più forte anche del fenomenale Ajax del 1993FB_IMG_1522309315364.
E che brandire una sedia in aria, forse, non sarebbe bastato.
Ma l’importante è stato uscire a testa alta, di fronte ai suoi tifosi.
Proprio come fece, quella sera, il suo Toro.
Marchegiani, Bruno, Annoni. Fusi, Benedetti, Cravero….

Ti sia lieve la terra.

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Mi dava l’impressione, prima di tutto, di una persona perbene; il classico vicino di casa del quale ti puoi fidare, che pulisce le scale se entra con le scarpe sporche e che non ti fa seccare le piante quando vai in vacanza.

26 lunedì Mar 2018

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“Rassicurante”.
Così era la televisione di una volta.

E così la volevano i dirigenti dell’epoca, con il mitico Ettore Bernabei in testa. Che era un democristiano a diciotto carati, e aveva della televisione una concezione un po’ antica… Codina e perbenista quanto volete ma capace anche di dare una lingua agli Italiani. Una tv che intrattenesse con garbo e vaselina, dove erano bandite parolacce e minigonne troppo avventurose. Dove la censura era fin troppo occhiuta (ricordate la querelle Vianello-Tognazzi?) e la politica era limitata giusto alle tribune elettorali; con la conduzione di Jader Jacobelli a renderle ancora più soporifere.

La Rai privilegiava questi personaggi “rassicuranti”. Autorevoli, con una bella dizione (che oggi si è un po’ persa) e che ispirassero serenità alla gente che guardava da casa. Era garbatissimo il giornalista Massimo Valentini, per esempio, che leggeva il telegiornale delle otto; e si trovava spesso, con quell’aria da gran signore, a dover parlare degli attentati e dei rapimenti che erano frequentissimi in quegli anni di piombo.
Era un uomo mai oltre le righe l’indimenticato Paolo Valenti, di 90° Minuto; ma anche Alfredo Pigna della Domenica Sportiva e Bruno Pizzul, che conduceva “Sportsera” alternandosi a Guido Oddo. Ed ineccepibili erano i “presentatori” classici, quelli del sabato sera; a cominciare dal popolare Corrado, pur con l’inflessione romanesca che però non stonava.

Oggi la tv ha cambiato registro: i programmi devono essere prima di tutto veloci, e a volte frenetici… Questione di gusti che cambiano, ma anche di concorrenza; perché lo share e gli indici di ascolto non esistevano, e quella Rai poteva permettersi il lusso di mettere una freccetta in basso per segnalare, cavallerescamente, che sul secondo canale stava iniziando un programma che valeva la pena vedere.
Adesso, con ottocento canali a disposizione, il pubblico non deve annoiarsi… E anche la Rai non può permettersi di lasciarlo per strada; perché i soldi della pubblicità fanno gola, e il cosiddetto servizio pubblico è una priorità, ma fino a un certo punto.

Fabrizio Frizzi (e lo dico da non assiduo dei programmi cosiddetti “preserali”) mi pareva in linea con quella gente lì, della quale ogni tanto avverto un po’ di nostalgia.
Ne ho apprezzato il garbo, l’educazione e quel modo sorridente di condurre le sue trasmissioni: mai sopra le righe, e nemmeno troppo sotto. Mi dava l’impressione, prima di tutto, di una persona perbene; il classico vicino di casa del quale ti puoi fidare, che pulisce le scale se entra con le scarpe sporche e che non ti fa seccare le piante quando vai in vacanza.FB_IMG_1522071916206
E questa (oltre alla straordinaria professionalità) è anche l’impressione che in tanti anni di carriera ha saputo offrire agli Italiani.

Che di gente perbene, evidentemente, avvertono un disperato bisogno.
Ti sia lieve la terra.

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Ma dubito che gli autori conoscano le facce che hanno imbrattato… Mi piace credere che, se le avessero conosciute, si sarebbero risparmiati quella nefandezza.

22 giovedì Mar 2018

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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A me, tanto per dire, il football ha sempre insegnato un’altra cosa.

Per esempio, che l’avversario non si imbratta.
Semmai, lo si rispetta. Che, peraltro, è anche una forma di furbizia.
Perché rispettando l’avversario, ne riconosci i meriti e il valore. E, conseguentemente, aumenta il tuo prestigio, quando quell’avversario sei riuscito a batterlo.
Fausto Coppi diventa Fausto Coppi quando batte Bartali, che era grande quanto lui. E i quattro staffettisti azzurri di Lillehammer’94 entrano nella leggenda perché vincono con i Norvegesi, che di quello sport sono una specie di Dream Team.
Perché lo sport è lotta, miglioramento di se stessi, ma è anche cavalleria.
E’ la cavalleria, che dà forza e spessore al gesto. Anche quando si inserisce nella logica della lotta (anche aspra) e delle rivalità che ne derivano. E che dello sport, e soprattutto del football, sono il pane e il companatico.
Il calcio enucleato dalla rivalità, infatti, non sarebbe calcio. E senza la passione irrazionale della gente, non sarebbe diventato lo sport più popolare del pianeta… Sarebbe diventato il cricket, o quelle robe aristocratiche e un po’ noiose. Dove in tribuna si sussurra “well played, Sir”, e alle cinque si interrompe la partita per filtrare il the.

29511191_1447493798696051_8175417732819350742_n: ma è pur vero che oggi si educa alla vittoria a tutti i costi (sui giornali, in tv, persino nelle scuole calcio), alla sopraffazione e all’aggiramento di qualsiasi regola… E allora cosa vuoi che importi di Annibale Frossi? Quello che sta in basso a sinistra, e che fu il primo calciatore a portare gli occhiali; talmente bravo da superare quell’handicap, e risultare il migliore di tutti alle Olimpiadi di Berlino 36.
O di Peppin Meazza (un po’ più in alto), che era il figlio orfano di una povera verduraia di Milano; con un’infanzia di stenti e malnutrizione, e che diventò il più grande calciatore del mondo. O di Veleno Lorenzi (più a destra) che era di Empoli, e fu un fantastico bomber del dopoguerra… Che rispondeva personalmente alle centinaia di lettere che gli arrivavano da tutta Italia, e sapeva frugarsi in tasca per qualsiasi occasione di beneficienza. E ogni sera, terminati gli allenamenti, faceva il giro degli orfanotrofi di Milano (i cosiddetti “martinitt”) per stare un po’ in compagnia di quegli sfortunati bambini.
E quei signori austeri con i baffi, che nel ristorante “L’Orologio” fondarono un giorno la gloriosa FC Internazionale, vanto e onore dello sport mondiale; affidando ad un famoso pittore il disegno dello stemma… E poi Giacinto Facchetti, probabilmente il calciatore più “bello” mai espresso dal calcio italiano. E Armando Picchi; che morì di tumore a 39 anni, ed era il leader riconosciuto della “Grande Inter”, la squadra più formidabile degli anni ’60.

C’erano, insomma, un sacco di motivi per onorare le facce di quel murales, al di là di ogni rivalità e di ogni bandiera.
Ma è pur vero che viviamo in un mondo dove, evidentemente, tutte le occasioni sono buone per tirare fuori il peggio di noi, ed esibirlo in piazza.
E così, al posto di un fiorellino, ecco che adesso appare la scritta “Inter Merda”.

Che è proprio quella roba che siamo ormai diventati.

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Ero poco più che un bambino. E questo è il mio ricordo del 16 Marzo 1978.

15 giovedì Mar 2018

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Anche la Coppa dei Campioni edizione 77-78, fu una gran bella edizione.

Io, me la ricordo bene.
Con gli occhi del ragazzo che ero; e che la mattina a scuola doveva decidere come investire gli spiccioli di giornata… Il panino per la ricreazione, o la Gazzetta dello Sport (che costava trecentocinquanta lire)?
Ma era un dilemma che, quando giocavano le Coppe, nemmeno si poneva.

Mi incuriosivano le squadre che venivano eliminate nei primi turni; le scandinave, soprattutto. Piene zeppe di centravanti che facevano altri mestieri, perché il professionismo come lo intendiamo adesso, non esisteva ancora. E il giorno dopo, al bar, c’era sempre quello che arrivava con il sorrisetto sulle labbra: “zitti voi, che vi ha fatto rete un elettricista…”. O un idraulico. O un postino.

Si fece onore, la Juve, in quell’edizione.
Uscì solo in semifinale, malissimo peraltro: dopo due autentiche battaglie con il Bruges, che misero a repentaglio le coronarie di tutti i tifosi bianconeri.
I Belgi, all’epoca, erano quanto di peggio ti potesse capitare: giocavano duro, ma tatticamente erano grandiosi… E il fuorigioco, lo facevano meglio degli Olandesi. La Juve fu eroica, e cadde solo al 118’; per un gol di Vandereycken (che poi venne al Genoa) ed un arbitraggio che scandalizzò persino la mia povera nonna.
In finale, poi, ci pensò il Liverpool, a metterli al loro posto.

Ma di quell’edizione, la partita che mi ricordo meglio si giocò esattamente quarant’anni fa. Il 15 marzo del 1978: ritorno dei quarti contro l’Ajax, dopo l’1-1 dell’andata, ad Amsterdam.
La Juve era quella di acciaio, con Furino, Benetti, Tardelli e Causio nel miglior centrocampo italiano mai visto. Grande Torino escluso.
L’Ajax era forte, ma in netto declino: esibiva, per l’occasione, una sgargiante maglietta gialla che mi impressionò moltissimo. Perché le partite, allora, si vedevano in bianco e nero; ma successe che un vicino di casa aveva appena comprato la televisione a colori, e proprio quella sera mi aveva gratificato di un invito.
In questi casi, non consulto mai Wikipedia e vado a memoria… Quindi, mi sembra gol di Bettega e poi pareggio loro con un tipo dal nome buffo che adesso, però, non mi sovviene. Poi, lo sfinimento fino ai calci di rigori, che premiarono la Juve.
Fu, debbo ammettere, una serata magica: la qualità della partita, la gioia del mio vicino di casa che era (e lo è tuttora) Juventino perso, e soprattutto la tv a colori. Che mi aveva lasciato letteralmente a bocca aperta.

La mattina seguente, a scuola, niente panino. Ma vuoi mettere con la copia della Gazzetta, da leggere avidamente durante la ricreazione? E chissà quanti aggettivi avrei scoperto, nei resoconti della partita… Quale voto era toccato a Scirea (che aveva giocato benissimo) e quali dichiarazioni aveva rilasciato il grande Dino Zoff.

Ma la ricreazione, quella mattina, non arrivò.
Arrivò invece il Direttore Didattico, con la faccia scurissima: e ci disse che era successa una disgrazia, e la scuola chiudeva in anticipo. E che, tra poco, sarebbe arrivato il pullmino per riportarci a casa.

Ero poco più che un bambino.
E questo è il mio ricordo del 16 Marzo 1978.FB_IMG_1521128268415

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La Fiorentina del calcio “yè-yè”, che negli anni di mezzo ci cadde dentro.

14 mercoledì Mar 2018

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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Ci sono “anni di mezzo”.
Poi ci sono anche gli “uomini di mezzo”, che quegli anni li attraversano.

Come Giancarlo “Picchio” De Sisti; che proprio ieri ha compiuto 75 anni.
E che ogni tanto lo rivedo in foto all’Azteca, nel 70. Con le sue gambette corte, al centro del campo, prima di cominciare la battaglia più epica del calcio italiano.
Oppure Capitano della Fiorentina del ’68, data fatale e quanto mai simbolica… La Fiorentina del calcio “yè-yè”, che negli anni di mezzo ci cadde dentro.1521029125825_adobe E seppe interpretarli così bene da vincerci addirittura uno scudetto.
Gli anni di mezzo tra due “dittature”: quella della Grande Inter degli anni 60 e la Juve Bonipertiana degli anni 70… Proprio lì, in quella cesura storica, si inserì la Viola di Picchio De Sisti. E anche il Cagliari del filosofo Scopigno, l’Inter di Robiolina Invernizzi e la Lazio di Chinaglia e Maestrelli.
L’immaginazione al potere, la risata che vi seppellirà… Il “siate realisti, chiedete l’impossibile”, e tutte quelle cose che andavano tanto di moda in quella stagione ormai lontana.
E che adesso fanno quasi sorridere: perchè la moda è passata, ed i suoi eroi hanno i capelli bianchi, e non sono più né giovani, né belli.

Chiarugi, Maraschi, Amarildo. E poi Superchi, Ciccio Esposito e il povero Ferrante… E Picchio De Sisti, che fu il più classico “uomo di mezzo”, in quegli “anni di mezzo”.
La mezzala testuale; l’anello mancante nella catena dell’evoluzione, che affascina così tanto gli antropologi… Il trait d’union tra il medianaccio alla Furino (o alla Bedin) e il “Dieci classico”, alla Rivera.
Meno muscolare di Benetti, meno universale di Tardelli, meno bello di Antognoni. Ma più completo nel condensare tesi e antitesi, e racchiuderle infine in una sintesi di straordinaria efficacia calcistica: lo stesso che saprà fare, tanti anni dopo, Xavi del Barcellona.

Uomini di mezzo, in anni di mezzo.
Anche se pensi che nessuno di quei campioni, oggi, giocherebbe in Eccellenza, con quel fisico lì.
Come Cera. O Rosato, o lo stesso Burgnich, che era alto 1,74 e pesava 71 chili.
O magari è vero il contrario.
Che Facchetti, oggi, avrebbe ginocchia e muscolatura adeguate, allenamenti scientifici, alimentazione studiata e sarebbe ugualmente il miglior terzino del mondo. Che con un centrocampo Bertini-Domenghini-De Sisti-Mazzola (Rivera) saremmo andati in tromba al Mondiale… Dove Gigi Riva avrebbe probabilmente segnato quanto Cristiano Ronaldo.

Non ho mai capito perché Picchio De Sisti non abbia avuto fortuna, come allenatore.
Era partito bene, guidando splendidamente quella Fiorentina che perse lo scudetto all’ultima giornata: quella del gol annullato a Cagliari e degli adesivi sulle automobili “meglio secondi che ladri”.
Poi, la fortuna gli ha evidentemente voltato le spalle.
O, forse, erano finiti gli “anni di mezzo”; e conseguentemente non c’era più spazio nemmeno per gli uomini di mezzo, che quella stagione avevano saputo interpretarla meglio di tutti.

Io l’ho conosciuto, Picchio De Sisti. A Montepulciano, finale nazionale Allievi tra Roma e Milan… Un uomo perbene e simpaticissimo, ovviamente nel giro della FIGC, dove svolgeva ruoli dirigenziali nel settore giovanile-scolastico.
Mi inserirono a tradimento nella giuria che doveva scegliere il miglior calciatore della partita, insieme a lui, a Bruno Conti, a Rivera ed altri personaggi di quel tipo.
“Picchio… Secondo te, meglio premiare il nove o il dieci?” gli chiese a un certo punto Comunardo Niccolai.
Lui dette un’occhiata, ci pensò su, e poi sorrise : “Bravi tutti e due. Comunque, meglio il numero dieci… Che cià la mamma ‘bbona.”.

Auguri, Picchio De Sisti.

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Poi, c’era Luigi Necco, da Napoli.Gente garbata, comunque. Con la faccia e il fisico degli zii che venivano a pranzo la domenica, e portavano il vassoio con le paste.

13 martedì Mar 2018

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Si andava in discoteca anche la domenica pomeriggio, negli anni ’80.
Anzi, forse era quello il momento migliore.
Perché le ragazze ce le trovavi tutte… Molto più del sabato notte, dove lo sballo e la movida erano di là da venire: e c’erano, invece, genitori un po’ all’antica per i quali la mezzanotte era l’ora giusta per rincasare.

Ma se c’era una cosa alla quale non si rinunciava, negli anni 80, era proprio il 90°Minuto. In onda alle sei e qualcosa, sul primo canale; poi arrivava Domenica Sprint, alle otto di sera, con Guido Oddo o Ennio Vitanza… E poi, ancora in discoteca: perché gli anni’80 erano l’edonismo reaganiano, i paninari, Reagan, Gorbaciov, ma soprattutto i Duran Duran e gli Spandau Ballet.
E la discoteca era un rito irrinunciabile; da noi andavano forte il Jump, l’Apogeo e anche il Mirage a Monte San Savino.

Quelli di 90°Minuto erano i primi a mandare in onda le immagini delle partite, che si giocavano tutte la domenica pomeriggio. E a raccontarle, c’erano Paolo Valenti (da studio) e una pletora di personaggi stralunati e indimenticabili, che talvolta diventavano personaggi come e più dei calciatori dei quali parlavano.
Il più famoso era Tonino Carino da Ascoli, poi l’irruento Giannini, per la Fiorentina, e il serafico Giorgio Bubba, per il Genoa e la Sampdoria. Ferruccio Gard, cadenzatissimo, raccontava il Verona di Bagnoli, poi c’erano Gianni Vasino, Beppe Barletti e Cesare Castellotti… Esibivano giacche un po’ demodè: e cravatte che per l’effetto “croma” si confondevano con le fotografie alle loro spalle.

Poi, c’era Luigi Necco, da Napoli. Che si alternava con un certo Italo Kuhne, che aveva l’aria vagamente da ufficiale delle SS. Un tipo freddo e un po’ sinistro almeno quanto Necco risultava invece pacioso, disincantato e simpatico. Talmente simpatico che nessuno, meglio di lui, era più indicato per raccontare le gesta del Napoli di Maradona, che vinceva gli scudetti in quegli anni felici.
Necco, e naturalmente tutta quella gente che gli stava dietro durante il collegamento: gente urlante che si sbracciava davanti alla telecamera per salutare a casa.

Diventò un fatto di costume, il 90°Minuto…. E lo diventò più per i personaggi che lo componevano che per i contenuti del programma: che erano semplicissimi, e forse proprio quello era il segreto: i gol, le azioni salienti, qualche intervista al volo (memorabili quelle di Franco Costa all’Avvocato Agnelli) e la battuta finale.
Nella quale Luigi Necco, da buon Napoletano, era maestro. Accompagnata da un piccolo cenno della mano, in segno di saluto a chiusura del collegamento.

necco
Gente che adesso non andrebbe più di moda, abituati come siamo al touchscreen e agli algoritmi applicati al football. Ma che erano comunque gente non banale: come Luigi Necco, che (mi disse Aldo Biscardi) era uno studioso con i fiocchi, ed uno dei tre-quattro massimi esperti italiani nel campo dell’archeologia
Tanto per dire.

Ti sia lieve la terra.

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E perché lo sport è l’unico posto dove non si muore mai, e nessuno ti dimentica.

06 martedì Mar 2018

Posted by riccardolorenzettiblog in Senza categoria

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“Ho vissuto tutte le morti”, disse una volta Hermann Hesse.
Sono morto come albero, e come petalo di rosa… Come insetto e come nuvola. Come battito d’ali di uccello, e come arcobaleno.

Voleva dire, forse, che ogni morte ci diminuisce. Anche se non ci riguarda da vicino.
Perché c’è stato un momento, da qualche parte della nostra vita, dove anche Davide Astori ha contato qualcosa.
Quando hai trovato la sua figurina, magari… O quando hai apprezzato una sua bella chiusura, un salvataggio nella linea di porta, un intervento pulito in scivolata. O quella volta che lo hai visto in foto, nel giornale, che si era vestito da Babbo Natale, e portava i regali ai bambini del Meyer.

Tutte le morti ci riguardano. Perchè nessun uomo è un’isola..
Io mi ricordo di quando ero piccolo, e morirono Pasolini e Saarinen. Che erano due motociclisti con il casco e gli occhialoni, come usavano una volta… Era la stessa domenica del Milan che perse lo scudetto a Verona, e noi provavamo il primo senso di vuoto che può dare una morte.
E che anche un campione, alla fine, è un uomo come gli altri.

Lo stesso senso di vuoto di quando morì Pantani. E De Andrè, e Lucio Battisti. Il Presidente della Sampdoria Paolo Mantovani, Gianni Brera e Scirea… Indro Montanelli, Elvis e Pertini. Eduardo, e Enzo Bearzot.
Gino Bartali, naturalmente. E Freddy Mercury, anche.
Mi ricordo di Ronnie Peterson, che morì guidando la Lotus nera, quella che aveva la scritta in oro John Player Special. Ed era la macchina più bella che avessimo mai visto.
Ayrton Senna, che ci morì davanti agli occhi, in diretta tv. E Gilles Villeneuve, che ci spezzò il cuore… E la notizia arrivò alla stessa ora, più o meno, del Capitano della Viola.

Ho trovato sublime il gesto della Fiorentina, che ogni tanto si ricorda di rappresentare, per la sua gente, qualcosa di molto più profondo di una semplice squadra di football.
Non mi sembra mai fuori luogo, quando si ritira una maglia. E mi commuovono i cori dei tifosi, e le sciarpe e le candeline ai cancelli dello stadio.
In genere, detesto la retorica. In tutti i campi, tranne che nello sport.
Perché lo sport è il nostro luogo delle fragole, e spesso penso che la retorica contribuisca a renderlo ancora più magico.

E perché lo sport è l’unico posto dove non si muore mai, e nessuno ti dimentica.
Trovo bellissimo quando a Old Trafford cantano in onore di George Best, e mi commuovono i tifosi granata che il 4 maggio salgono a Superga a deporre un fiore per il Grande Torino.
Mi piace che ci sia un museo con la maglia originale di Obdulio Varela, che guidò l’Uruguay ai Mondiali del 1950. E che nel mio paese organizzino da più di trent’anni un torneo per Fulvio Benvenuti.
E che davanti ad Anfield Road ci sia la statua di Bill Shankly; che veniva dalle miniere della Scozia, aveva fatto la guerra e poi fu l’inventore del più grande Liverpool di tutti i tempi.
“Ha fatto felice tanta gente”, scrissero nel piedistallo.

Ti sia lieve la terra, Davide Astori.
Capitano dell’A.C.Fiorentina.
Di Firenze.ast

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