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Causio fu uno dei simboli di quella Juve ormai lontana. La Juve di ferro, unica squadra italiana a reggere il colpo in un calcio che l’Arancia Meccanica di Crujff aveva letteralmente terremotato.

01 venerdì Feb 2019

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Causio, juve, juventus

La classe c’era, senza discussioni.

Il problema, semmai, era dove mettere l’accento.
Perché se la pronuncia corretta e universalmente riconosciuta era “Càusio”, con l’accento classico sulla “a”, usciva sempre fuori qualche intemerato che quell’accento lo piazzava sulla “u”.
E lo chiamava “Caùsio”. Con un effetto che a noi risultava fastidioso, se non addirittura urticante.
Uno era Gino Rancati, di 90° Minuto.
E l’altro era il povero Dino, al mio paese: che spergiurava di averlo sentito dalla stessa bocca di Causio, in una delle sue primissime dichiarazioni fatte alla tv.
Dino era un uomo intelligente, ma anche un po’ anticonformista: e quindi mi è sempre rimasto il dubbio che quell’ostinato “Caùsio” fosse, in realtà, la piccata reazione al “Càusio” che utilizzavano tutti gli altri.
Anni duri e un po’ ingenui, gli anni settanta. Anni di passioni forti, ma anche di accenti sbagliati.
Come quello di Enrico Berlinguer, il segretario del PCI: che qualcuno chiamava “Bèrlinguer”, e Bertolucci ci fece pure un film.

Causio fu uno dei simboli di quella Juve ormai lontana. La Juve di ferro, unica squadra italiana a reggere il colpo in un calcio che l’Arancia Meccanica di Crujff aveva letteralmente terremotato.FB_IMG_1549027002793.jpg
Era la Juve della nostra infanzia. Capitano, Beppe Furino. Che ricordo, nelle magiche notturne di coppa, scambiare i gagliardetti con quegli spilungoni tedeschi e olandesi.
E pioveva sempre a dirotto.

In quella Juve di sublimi randellatori, dove la maglia numero dieci (quella di Omar Sivori) toccava spesso a Romeo Benetti, i numeri di Franco Causio rappresentavano la luce che si accendeva. Con il dribbling per far partire l’azione, poi lo scatto per lasciare sul posto il diretto marcatore, e infine il cross. “Al bacio”, si diceva una volta: mentre oggi si dice “con il contagiri”.
Ad aspettarlo, c’era il guizzo spesso irresistibile di Anastasi, e poi di Boninsegna. Oppure il colpo di testa di Bettega, meraviglioso acrobata delle aree di rigore.
Un artista, il Causio della nostra giovinezza: la personificazione della classe, e dello stile. Con la grande attenzione al taglio di capelli, alla cura del baffo e alla scelta dei vestiti, rigorosamente di alta sartoria. Anche per quello diventò “Il Barone”, un soprannome che gli piacque da matti: perché era un uomo del sud, e un po’ vanitosetto per giunta. E ai titoli ci teneva eccome.

Io ricordo benissimo l’ultima grande annata del Causio calciatore: fu l’81-82, quando la Juve si invaghì degli estri lunatici di Domenico Marocchino e lo disfecciò senza troppi complimenti all’Udinese.
Dove, invece, disputò una stagione memorabile. E ogni stadio era buono per strappare applausi a scena aperta se non addirittura giri d’onore, al fischio finale. Come successe al grande Di Stefano, che concluse la sua carriera nell’Espanyol. E con quella maglia addosso, raccolse gli omaggi che il pubblico gli aveva ostinatamente negato finchè aveva giocato nel Real Madrid.

E fu proprio in virtù di quello spettacoloso campionato, che Bearzot lo volle tra i ventidue del Mundial di Spagna: concedendogli il cosiddetto “passo d’onore” proprio nella finalissima con la Germania.
Madrid, 11 luglio 1982. E se avrete voglia di leggere il tabellino, troverete scritto: Altobelli (dall’ 88° Causio).
Sono due minuti che, calcisticamente, non vogliono dire nulla.
Per noi che abbiamo visto giocare Causio, invece, vogliono dire tutto.

Auguri, Barone.

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Ma soprattutto come “Rudi” Krol, colonna della Grande Ajax e dell’Arancia Meccanica del ’74.

24 giovedì Gen 2019

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Diego, juve, Krol, Maradona, Napoli calcio

L’arrivo di Diego, nel 1984, rovesciò la città di Napoli.

Accorsero in tanti, al San Paolo, solo per il gusto di vederlo palleggiare davanti a loro.
Perché si capì fin da subito che quel ragazzo moro e riccioluto, laggiù, sarebbe diventato ben presto l’uomo del destino.
E perchè si faceva davvero fatica a credere che il divino Maradona avesse scelto proprio Napoli: lì per lì sembrò davvero un Dio che si materializzava, e si faceva carne dentro un prato verde.
O almeno, questa fu la sensazione degli ottantamila di quel pomeriggio.
Ruud “Rudi” Krol, invece, arrivò a Napoli quattro anni prima.
Un arrivo più silenzioso e ovattato: con dinamiche diverse, ma con le stesse identiche finalità che porteranno poi all’ingaggio del “Pibe De Oro”: ovvero, quella di innestare su un albero abbastanza modesto una varietà di legno pregiatissimo.

E, per quanto strano possa sembrare, andò a finire che quel Napoli lì, con Guidetti e Vinazzani, con Musella e Claudio Pellegrini III°: quel Napoli poverello, ma magistralmente guidato da Rudi Krol, fece il pelo a vincere il suo primo scudetto.
Con qualche anno di anticipo sulla storia, e sul destino.

Lo scudetto lo vinse, invece, la Juve del Trap, al fin della licenza chiusa dal celeberrimo gol annullato a Ramon Turone. Seconda, la Roma zonarola del Barone Liedholm e terzo il Napoli, giustappunto. Che si ritrovò primo in classifica con le vertigini, quando mancavano cinque giornate dalla fine.
Poi, al San Paolo arrivò il Perugia già retrocesso: e per uno di quei misteri dolorosi (o gaudiosi, a seconda da quale parte si vedano) del gioco del calcio, finisce che il Napoli perde zero a uno. Autogol al primo minuto dello stopper Moreno Ferrario, che non ci sarà verso di rimontare nei successivi ottantanove: così, basta una dannata partita per far squagliare il sogno, perché la Juve riagguanterà la testa della classifica, e non la mollerà più fino alla fine.
Fu un “harakiri” in piena regola, ingiusto e doloroso. Qualcuno la prese con filosofia, e strizzò l’occhiolino: “Ohè… Anime belle… Pensavate davvero che il calcioscommesse fosse finito con la squalifica di Paolo Rossi?”.

Fu, quello, l’anno degli stranieri.
Che tornarono a popolare il nostro campionato, dopo stagioni di autarchia che avevano costretto il vecchio Sergio Clerici, detto “Il Gringo”, a rappresentare l’unica nota esotica presente nell’Album Panini.
Uno straniero per squadra:
una specie di “jolly” che qualcuno giocò bene (la Juve con Brady, per esempio, ma anche la Fiorentina con Daniel Bertoni), qualcuno così così (l’atteso Prohaska, che all’Inter non fece stravedere), e altri decisamente male; come l’esordiente Pistoiese, che acquistò il gelataio Luis Silvio credendolo una grande ala destra.

E poi ci furono gli stranieri bravi; quelli sui quali fu possibile costruire una grande squadra: tipo Falcao, che rovesciò la Roma come un calzino, ma soprattutto come “Rudi” Krol, colonna della Grande Ajax e dell’Arancia Meccanica del ’74.fb_img_1548332837415
Uno di quei calciatori come in Italia non si vedevano da tempo, e che seppe trasformare un Napoli poco più che modesta in una quasi pretendente allo scudetto.
Giocò partite memorabili, Krol, nonostante avesse più di trent’anni, che all’epoca erano una specie di inesorabile crocevia verso il declino. Ricordo una prestazione mostruosa in un Napoli-Roma dove mancarono le parole persino a Luigi Necco di 90° Minuto, che era un fenomenale inventore di aggettivi.
Quando, a fine campionato, fu premiato con il prestigioso “Guerin d’Oro”, si scoprì che la sua media-voto aveva polverizzato tutti i record precedenti. E venne in mente quella volta che chiesero a Gianni Agnelli le parole giuste per definire un campione: l’Avvocato ci pensò un attimo, e poi sorrise: “Il campione è quel tipo di calciatore che gioca quasi sempre bene, e qualche volta benissimo”, disse.

Questo, e non altro, fu il Ruud “Rudi” Krol: magnifico Olandese volante del Napoli 1980-81.
Che fu si un anno di grazia, ma un po’in anticipo sui tempi: non ancora maturi, evidentemente, per lo scudetto.
Che arriverà qualche anno dopo, come una favola al contrario: ed avrà il suo Principe Azzurro in un tipo piccolo,nero e bruttarello.
Almeno quanto il suo predecessore era apparso alto, biondo e bellissimo.

Ma Napoli è una città spettacolare. E contraddittoria.
E il football, in fondo, è bello anche per questo.

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Gigi Agnolin da Bassano del Grappa fu uno dei primi “arbitri-atleti”; di quelli già proiettati verso il calcio muscolare che stava arrivando.

29 sabato Set 2018

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agnolin, arbitro, bettega, juve, luigi agnolin, messico86

L’impressione era che a fare gli arbitri fossero buoni tutti, in quei tempi lì:
Bastava avere un pò di passione, e capire di calcio il minimo indispensabile; giusto per distinguere la punizione “di prima” da quella “di seconda”. Poi bisognava avere un pò di pelo sullo stomaco, e soprattutto autorevolezza… Come il prete, o il Maresciallo dei carabinieri quando venivano chiamati ad arbitrare Scapoli-Ammogliati.
E non volava una mosca.

Bastava quello, perchè il calcio andava piano. E consentiva una carriera più che decente anche a chi di atleta aveva poco o niente, tipo gli arbitri di allora. Personaggi anche loro, ovviamente: che vestivano esclusivamente il nero ed avevano il cognome declinato insieme alla città di provenienza. Michelotti da Parma, o Serafino da Roma… Lo Bello da Siracusa, ovviamente, e poi quelli con i nomi più evocativi: come Trinchieri, che veniva utilizzato per quelli che alzavano il gomito. Robe tipo: “Ohè.. Ieri sera al veglione sembravi l’assistente dell’arbitro Trinchieri da Milano?” (ma anche Barbaresco da Cormons andava benissimo).
Infine, Cinciripini da Ascoli. Che era il massimo.

Gigi Agnolin da Bassano del Grappa fu uno dei primi “arbitri-atleti”; di quelli già proiettati verso il calcio muscolare che stava arrivando.
E insieme a Casarin, il miglior arbitro del mondo per almeno un decennio; Precursore di quella scuola italiana che da allora non ha più smesso di produrre “fuoriclasse”, affermandosi nettamente (almeno loro) come la migliore del mondo.
Casarin era stempiato, e aveva un che del ragioniere. Arbitrava con il buonsenso, dispensando sorrisi e fu il primo a usare il “tu” con i calciatori, sentendoli finalmente “colleghi”. Fu un piccolo choc, perchè all’epoca le distanze erano più ampie, e si usava un civettuolo “lei” persino con i giovanissimi.
Agnolin, invece, era un duro. Teneva in pugno le partite con severità ed intransigenza, e quando le squadre entravano in campo, si capiva subito chi era che comandava. Ricordo un litigio memorabile con Bettega, che era il leader della potentissima Juventus di Boniperti: “zitto, o ti faccio un culo così”, gli sibilò quell’inflessibile arbitro. La cosa finì sui giornali, e vi lascio immaginare lo scandalo. Ne nacquero polemiche infinite.

Ma Agnolin era un tipo così: prendere o lasciare.
E il calcio del’epoca, alla fine, fu “costretto” a prenderlo. Perchè era davvero il più bravo di tutti, ed aveva un prestigio altissimo, anche a livello internazionale. Ai Mondiali dell’86 toccò a lui la partita più difficile del decennio: l’ottavo di finale tra Argentina e Uruguay che nessuno se la sentiva di arbitrare. Se le promettevano da tempo, le due antiche rivali, ed avevano una voglia matta di regolare sul campo alcune pendenze mai sopite, come succede al Palio di Siena quando escono contemporaneamente il Nicchio e il Montone.
Fu, quella, una specie di tesi di laurea per Gigi Agnolin. Che ribaltò la situazione da gran campione; e trasformò una gara a coefficiente difficoltà massimo in una specie di trenta e lode internazionale.

Ho avuto modo di conoscerlo, Agnolin.
A Gaiole in Chianti, dove Giancarlone Brocci l’aveva coinvolto nel giro de “L’Eroica”; e dove lui mi sembrò completamente a suo agio, stretto in mezzo tra quella gente irresistibile che mescola amicizia e buon vino: malinconie e vecchie biciclette da corsa. Ricordo che fece l’elogio del mio “colpo di tacco” (che ero andato lì a presentare ), regalando un paio di aneddoti sul Socrates calciatore, che aveva avuto modo di arbitrare molte volte.

Quando, alcuni mesi fa, volli inviargli i miei saluti, Giancarlo Brocci storse la bocca: “non sta molto bene, sai…”
E mi dispiacque molto.

Ti sia lieve la terra

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C’è gente, ormai, che guarda le partite di pallone nel solo, esclusivo, intento di scovarci un motivo di polemica, o di scontro. E di buttarvisi a capofitto.

13 venerdì Apr 2018

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juve, real, roma

Siamo alla guerra tra bande.
Con altissimo tasso di litigiosità

Il cosiddetto “sfottò”, che costituiva una delle componenti più creative della passione sportiva, ha cambiato pelle. Ed è diventata la regola.
Ma non lo “sfottò” da caffè dello sport, intendiamoci… Bensì, qualcosa di più sinistro e truculento; che diventa offesa (nel migliore dei casi) se non addirittura violenza verbale (nel peggiore).

C’è gente, ormai, che guarda le partite di pallone nel solo, esclusivo, intento di scovarci un motivo di polemica, o di scontro. E di buttarvisi a capofitto.
Il sangue che scorre… Anche nei canali televisivi, dove le storie di Buffa sono andate bene, fino a un certo punto. Poi, gli ascolti sono un po’ calati, e hanno ripreso vigore le trasmissioni del tutti contro tutti. Quelle dove si sono inventati la nuova professione del “tifoso-giornalista”: che, in quanto giornalista, ha l’autorevolezza per poter parlare.
E in quanto tifoso, di offendere.
I social network, di questo costume, ne sono diventati addirittura il megafono… Dovevano essere la vetrina dei nostri riflessi migliori: poi, alla fine, ne hanno tirato fuori il peggio.

Davo un’occhiata a Facebook, l’altra sera.
Nel giro di ventiquattr’ore, il profumo di violette che aleggiava per la Roma si è trasformato in liquame: e la soddisfazione di chi parteggiava per il Madrid ha toccato vertici notevoli. “Merde” e “bastardi” si sono sprecati: e siccome la violenza genera violenza, le risposte sono puntualmente arrivate.
E andavano nella stessa direzione.

“Non ti facevo così filo-juventino”, mi scrisse scandalizzato, in privato, una persona peraltro molto intelligente.
Avevo appena fatto un elogio di Del Piero, e lì per lì caddi dalle nuvole.
Così, gli risposi che nel calcio ci si guadagna talmente poco che non valeva la pena avvelenarsi troppo il sangue… Conveniva, piuttosto, coglierne la parte più bella e più emozionante. Al di là dei colori.
E gli spiegai che, per quanto strano, non mi costava nessuna fatica, da Sampdoriano feroce, applaudire l’Atalanta, o la Lazio quando se lo meritavano.
Che la Roma di Falcao mi aveva emozionato tantissimo, che il Milan di Sacchi mi aveva annoverato tra i suoi tifosi e che il Triplete dell’Inter di Mourinho mi era sembrata una roba così meravigliosa da meritarsi addirittura un piccolo libro.
Che da piccolo stravedevo per Gigi Riva, pur non tifando il Cagliari, e per Roberto Bettega, pur non tifando Juve. Che tuttora mi emoziono quando ascolto la formazione dell’Ajax del ’73 e che la Juve di Bilbao ‘77 seppe parlarmi al cuore, come l’Amleto di Shakespeare agli attori di teatro… E che davanti all’elica dell’aereo che trasportava il Grande Torino mi misi a piangere così tanto che finii per vergognarmene.
Che il Genoa di Signorini era una gran bella squadra, con un capitano fantastico, e il Trequanda che vinse la coppa con l’Acquaviva fu davvero una cosa notevole… Facevo la telecronaca, quella sera, e non mi parve il vero di emozionarmi pure lì.

Capisco che il calcio è “pancia”, e soprattutto “tribù”.
Lo stadio è, nell’anfratto più remoto del nostro cervello, il campo di battaglia dove si sgozzavano i nostri antenati etruschi, romani, franchi, longobardi, saraceni eccetera: e, ancestralmente, si va alla partita come se si andasse alla guerra .
Ci andiamo con un corredo di canti, di bandiere, di tamburi che (a pensarci bene) di quelle lontane usanze sono parenti molto prossimi.

Ma il football, poi, è anche estetica.
Godimento, esaltazione, estasi talvolta… La Juve aveva giocato così bene, l’altra sera, da meritarsi almeno i supplementari… E l’arbitro che glieli ha negati, ha commesso in quel caso un “delitto di leso calcio”, se esistesse un tale capo d’imputazione.
E quel rigore (dubbio o meno) ha fatto male a fischiarlo.

Era un’opinione da innamorato di calcio, e non da tifoso.
Ma alla fine, siatene certi, vinceremo noi.

Fatevene una ragione.

Pallone-sgonfiato-PP

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Adesso, celebrano l’Inter. Due giorni fa, si dovevano vergognare.

19 lunedì Set 2016

Posted by riccardolorenzettiblog in calcio, Senza categoria

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inter, juve

Adesso, celebrano l’Inter.
Due giorni fa, si dovevano vergognare.

E questo, se non altro, ci dà la misura di quanto fuggevoli siano le glorie (e le miserie) del football, dove si celebra un processo, o una beatificazione, al minuto.
Ma anche di quanto sia cambiata la vecchia Gazzetta dello Sport, specie nei titoli: quella dell’Inter “non ti vergogni?” di venerdi mattina mi ha fatto addirittura sobbalzare… In genere, la “rosea” non scende mai sotto una certa soglia di moderazione e di “politically correct”. E quelle prime pagine le lascia al Corriere dello Sport, quando non fischiano un rigore alla Roma (o al Napoli) e a Tuttosport, che strillava “Giggs al Toro. È fatta!”, quando il Toro non aveva i soldi nemmeno per il gasolio nelle caldaie.

Il minuto di vergogna, allora, lo riserviamo volentieri a quelli del merchandising.
Ribadisco che questa moda della seconda e della terza maglia ci è decisamente sfuggita di mano… Vista ieri sera una Roma abbastanza inguardabile (un pò Scavolini Pesaro quando giocava Kicanovic, un po’ ghiacciolo Algida) dopo le polemiche per l’Inter-Sprite e la Sampdoria celestina dell’Olimpico (che se l’arbitro Giacomelli ci ha fischiato il rigore contro per quello, ha fatto pure bene).
E’ una deriva cromatica che non mi convince, perché sono un innamorato perso del football; e fatalmente, quando mi si toccano le tradizioni divento una belva… Poi ci ragiono, e mi domando quale atto di masochismo convinca un tifoso a spendere euro 89,90 (da listino) per un obbrobrio del genere.

Abbastanza indicativa anche la parabola degli allenatori, che in Italia riteniamo parecchio più importanti dei giocatori (ma ci copiano anche dall’estero. Guardate quanto si divertono in Inghilterra con Mou e Guardiola!).
Allegri, per esempio, è passato da celebrare messa a doversi inginocchiare sui ceci. Tutto in quattro giorni: e magari bastava che la testata di Higuain, in coppa, fosse finita due millimetri più in basso e i giudizi sarebbero stati completamente diversi. E non gli avrebbero rinfacciato lo scarso utilizzo di Pjanic, messo poi in squadra a furor di popolo e rivelatosi il peggiore in campo.

Stesso discorso per De Boer, l’olandese dell’Inter. A Pescara è passato per genio perché, vistosi in svantaggio, ha tolto i difensori e li ha sostituiti con gli attaccanti (ma il copyright non è il suo. Lo faceva anche Mourinho. E prima di lui, Tamascio nel Montefollonico amatori). Contro l’Apoel Tel Aviv, De Boer è diventato un cerebroleso e ierisera nuovamente un demiurgo.
Ma il bello è come tutti gli intenditori di calcio ci abbiano trovato una logica continuità: e non abbiano invece trovato singolare come un tapino che la domenica non sa né leggere nè scrivere possa essere capace, il sabato successivo, di buttare giù un canto della Divina Commedia.

Non per niente, si parla di pallone ventiquattr’ore al giorno.
E nessuno ha mai torto.

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